Aprite i vostri archivi più intimi e provate a rilevare quanto, restringendo il campo della query dal 1977 al 1981, la vostra vita in quegli anni lì ha avuto a che fare con qualcuno dei pezzi di Lucio Dalla tratto dai tre album forse più importanti della sua carriera, usciti proprio in quel lasso di tempo. Mi riferisco Come è profondo il mare (1977), Lucio Dalla (1979) e Dalla (1980), e anche se ammetto di non essere il più titolato esperto in questo ambito, considerando la mia specializzazione in ben altri generi musicali, concorderete con me che pensare a una classifica di tre dischi così è una bella lotta.
Ma poi è chiaro che non è che dobbiamo sempre star lì a dare i voti e a pensare che qualcosa è meglio o peggio di qualcos’altro. Concentriamoci invece sui nostri ricordi, e pensate a quanti ritagli di esperienze possono essere legati al timbro vocale di Lucio Dalla e a quella ventina di brani tratti da quei tre dischi, considerando il successo che hanno avuto e a quanto si sono sentiti per radio, alla tv, negli impianti stereo, nelle autoradio nostre e dei nostri amici. Casualmente nei negozi, anche se forse allora non c’era il vezzo della diffusione sonora negli esercizi commerciali, o volontariamente nei juke-box, questo sì, posso darvi la conferma.
Più di ogni altro cantautore, e mi riferisco agli altri mostri sacri della nostra cultura, Lucio Dalla ha meritatamente occupato un posto di crocevia tra varie tipologie di pubblico, anche se nella finestra di tempo a cui mi riferisco era tutto molto meno diversificato e c’era un approccio più omogeneo agli ascolti. Rispondendo a suo modo al pop, alla canzone impegnata, all’intellettualismo del pubblico dei cantautori, all’esigenza di semplicità e all’immediatezza dell’emozione pret a porter delle sue parole raffinate ma allo stesso tempo crudelmente dirette, al registro della sua voce così familiare e per questo rappresentativa di una fase così peculiare della nostra storia, Lucio Dalla innegabilmente è dentro di noi e fa parte di quello che siamo.
E se è vero che poi quelli che ritengo i suoi migliori tre dischi sono entrati nel pantheon della maggior parte degli italiani, non riesco a non pensare a un istante della mia vita di allora – ero poco meno che preadolescente – senza legarlo a uno dei suoi versi e alla dolce amarezza dei quadri che dipingeva nelle sue canzoni, un aspetto che va oltre i gusti musicali (io davvero ascoltavo ben altro) e che si va a collocare tra i requisiti fondamentali del modo di interpretare quel passato lì. Insieme a come ero, a quello che facevo, a chi frequentavo, ai vestiti che indossavo, alle speranze che maturavo, alle gioie e ai dolori e a tutto il resto, qualsiasi cosa che cerchi rovistando nei cassetti della memoria di allora, di quel periodo tra il 77 e l’81, trovo sempre un berrettino di lana e un paio di occhialini tondi.