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Furore
John Steinbeck
2013  (Bompiani)
LIBRI E ALTRE STORIE
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19/08/2019
John Steinbeck
Furore
Perché leggere (o rileggere) proprio oggi quello che è considerato il romanzo simbolo della Grande Depressione americana, uscito nel 1939, ben ottanta anni fa?

Innanzitutto, se non bastasse il fatto che questo romanzo abbia vinto il Premio Pulitzer e il National Book Award, c’è una ragione squisitamente letteraria: la nuova edizione Tascabili Bompiani lo ha presentato nella sua versione integrale, senza i tagli e i rimaneggiamenti imposti dalla censura fascista quando il libro uscì in Italia. In questo modo, è possibile recuperare la varietà di registri linguistici utilizzata da Steinbeck, il contrasto fra l’americano parlato dei personaggi, gergale e talvolta sgrammaticato, e un linguaggio biblico ed epico che fa da sfondo agli eventi (per quanto tale operazione sia molto più facile per chi legge il testo nella lingua originale).

In secondo luogo, si tratta di un’opera di denuncia coraggiosa e intensa, che proprio per questo è stata oggetto di grandi entusiasmi e di aspre critiche, contestazioni ed esaltazioni, ed è stato uno dei più grandi successi editoriali della letteratura americana.

Siamo negli anni ’30. La crisi, accompagnata dalle devastanti tempeste di sabbia che avevano rovinato le coltivazioni, impoverendo le fattorie e rendendole facile preda delle banche speculatrici, spinge migliaia di lavoratori a cercare la via dell’Ovest per poter sopravvivere. Infatti, le banche e le finanziarie, questi potenti mostri, cui gli agricoltori avevano chiesto prestiti per affrontare la crisi, si rifiutano di rinnovarli e sfrattano intere famiglie radendo al suolo le loro fattorie, fattorie che, in molti casi, esistevano da più generazioni.

Ovunque si assiste a interminabili code di automobili, camioncini, furgoni, stipati di persone e di povere e care cose, che si spostano da uno stato all’altro, dormono per strada, in campi improvvisati, soffrono la fame e il freddo, muoiono di stenti nelle baraccopoli improvvisate lungo la famosa Route 66. Ad attirarli la promessa di essere impiegati come raccoglitori nei campi della California, un lavoro che si rivela ben presto un mero sfruttamento da parte dei proprietari terrieri che trattano i braccianti come schiavi, li pagano molto al di sotto del minimo tollerabile, li sottopongono a vessazioni, non si esimono dal picchiarli e addirittura ucciderli. Considerati come dei reietti, rifiutati ed emarginati dagli abitanti del luogo, questi veri e propri profughi mettono in atto le dinamiche che sempre si creano in questi casi: alcuni soccombono, altri si adattano, altri cercano di reagire con la violenza o con la lotta organizzata. E Steinbeck si rivela un profondo conoscitore di queste dinamiche e delle cause che le determinano, peraltro cause che sono estremamente attuali: la recessione, le speculazione delle banche, il capitalismo selvaggio.

Protagonista della vicenda è la famiglia Joad: Tom, appena uscito di prigione dove ha trascorso sette anni per un omicidio commesso per legittima difesa, torna a casa, nell’Oklahoma devastato dalle tempeste di sabbia, e leggendo un volantino con un’offerta di lavoro come bracciante, decide di tentare l’esodo verso la California. Con lui la madre, figura di forza granitica e biblica rassegnazione, il padre, i fratelli Noah, il maggiore, Ruth e Winfield, i piccoli di casa, una giovane coppia, Connie e Rosasharn che aspettano un bimbo, lo zio John, i nonni, e un ex-predicatore filosofo, Casy. Non tutti riescono a sopravvivere fino all’arrivo in California e sono tantissimi gli imprevisti che i Joad si trovano costretti ad affrontare. Lungo la Route 66 incontrano tante altre famiglie nelle loro medesime condizioni e, una volta giunti in California, si rendono conto di non aver trovato la Terra Promessa che immaginavano. Non solo: Casey viene brutalmente pestato da un poliziotto e muore, e, nello sciopero che ne consegue, Tom involontariamente causa la morte di quello stesso poliziotto. Costretto ad andarsene, di fronte al dolore e alla preoccupazione della madre - “Come faccio a sapere che ti succede? Capace che t’ammazzano e io manco lo so. Capace che ti fanno male. Come faccio a saperlo?” – Tom risponde “[...] non importa. Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto [...] Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. [...] sarò negli urli di quelli che si ribellano...”.

E in effetti il fantasma di Tom Joad è tornato, ed è rimasto vivido nell’immaginario collettivo americano: non solo nel 1940 John Ford ha tratto dal romanzo un film con Henry Fonda nei panni di Tom Joad, appunto, ma al protagonista di Furore ha dedicato l’omonima canzone Woody Guthrie, e a lui si ispira anche Bruce Springsteen con l’album The Ghost of Tom Joad.

Quando, dopo la partenza di Tom, sembra che le cose comincino a volgere al meglio, i Joad sono travolti da un’inondazione, e in seguito la giovane Rosasharn viene abbandonata dal marito e il bimbo non sopravvive al parto. Ma in questo scenario di dolore, desolazione e sconfitta, Steinbeck inserisce una nota di positività: non il banale lieto fine o l’entrata in scena di un salvatore che premia i buoni e punisce i cattivi. No: nella terra delle opportunità, a vincere è la forza collettiva, il coraggio dell’apertura all’altro, la vita che si dà, nonostante tutto: ed ecco l’immagine potente di Rosasharn che, privata del suo neonato, allatta un viandante stremato dalla fame.

Furore è un libro che trasuda ingiustizia e rabbia, la seconda come diretta conseguenza della prima. Infatti meglio sarebbe stato mantenere il titolo originale del libro, The Grapes of Wrath, proprio per sottolineare quei frutti dell’ira che determinano le vicende della famiglia Joad e degli altri braccianti. La rabbia scaturita dall’ingiustizia è il motore di tutto e Steinbeck quasi quasi ammonisce il lettore a rendersi conto che questa rabbia non può essere dominata, che prima o poi è destinata ad esplodere e a travolgere ogni cosa. Non è più possibile accettare che gli speculatori abbiano i granai stracolmi e i figli dei braccianti muoiano di fame: “[...] le banche non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. [...] Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia l’ira, e fermenta”. Inutile sottolineare quanto sia attuale questa tematica: gente che fugge dalla miseria alla ricerca di un’occasione per avere una vita dignitosa e che si ritrova fagocitata dal sistema capitalistico con il suo sfruttamento e la sua violenza strutturale, senza comprensione e senza solidarietà altrui: di fronte all’afflusso di tanti disperati “I proprietari terrieri sono terrorizzati. Individui che non avevano mai provato la fame, ora vedono questa fame per la prima volta negli occhi degli affamati! Individui che non avevano mai desiderato nulla con vero ardore, ora vedono per la prima volta la rossa fiammata di furore che l’indigenza accende in fondo agli occhi dei mendichi” e così gli abitanti delle città e dei sobborghi decidono di difendersi da questa paura e di rassicurarsi: “Ed ecco[li] persuadersi di esser buoni e chiamar cattivi gli invasori; perché, quando si decide a prendere le armi per ammazzare il prossimo, è buona regola che l’uomo pensi così”.

Su questo tema, come fulcro di Furore, tanto si è scritto e si è detto.

C’è tuttavia un altro aspetto importantissimo del romanzo di Steinbeck: la frantumazione sociale che il capitalismo selvaggio attua sistematicamente, stimolando e rafforzando un individualismo che di fatto nega la possibilità di un reale riscatto sociale – Se foste capaci di distinguere le cause dagli effetti [...] allora potreste sopravvivere. Ma non ne siete assolutamente capaci. Perché il possesso vi congela in altrettanti «io» e vi aliena i «noi» – e diventa l’arma principale in mano ai padroni per continuare le proprie vessazioni e quindi perpetrare lo sfruttamento: “Questo è l’obiettivo che dovete bombardare: questa transizione dall’ «io» al «noi»”. Steinbeck sottolinea a più riprese l’importanza dell’unione, dell’organizzazione, del fare corpo unico contro l’ingiustizia, i soprusi, la violenza: “Qui è il pericolo: perché due uomini insieme sono sempre meno perplessi di un individuo solo”.

È dunque evidente che Furore vada ben oltre la semplice denuncia sociale. Il punto non è solo la denuncia delle terribili condizioni dei braccianti californiani e dei migranti, sfruttati dai padroni nelle piantagioni di cotone e nei campi agricoli. Steinbeck per molto tempo aveva studiato la condizione degli americani annientati dalla crisi, costretti ad abbandonare casa e lavoro e a mettersi in viaggio per gli Stati Uniti, verso la California, inseguendo improbabili promesse di lavoro e di una vita migliore. Questo lo aveva messo in condizione di avere una visione realistica di come stessero le cose e di rendersi conto che l’unica risorsa per questi lavoratori come per tutti i disperati e gli affamati di oggi, ottant’anni dopo, è la lotta, e che questa lotta può diventare dura e inarrestabile, e, se finora i poteri forti lo hanno impedito, non è detto che ciò accadrà sempre, perché Tom Joad continua ad essere dappertutto e nascosto: “Dovunque si vada, in California o in inferno o in paradiso, ciascuno di noi è un tamburmaggiore alla testa di un corteo di torti e di ingiustizie. E tutti questi cortei un giorno si incontreranno, si uniranno, e dalla loro unione nascerà il terrore”.


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