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REVIEWSLE RECENSIONI
04/03/2019
TERSØ
Fuori dalla giungla
Trenta minuti pericolosamente vicini alla perfezione, dove l’atmosfera è triste, a tratti rassegnata ma si riesce a ballare lo stesso, grazie anche a ritornelli tutti clamorosamente indovinati.

Il brutto di quando un suono prende piede è che tutti ci si buttano sopra e per qualche anno bisogna sopportare l’uscita di tanti dischi che sembrano fatti in serie. Chissà quanto durerà la stagione dell’It Pop. Non ci dispiace, per carità, ci sono diverse cose che hanno colpito la nostra attenzione ma alla lunga si avverte l’esigenza di avere qualche cosa di diverso da ascoltare.

Per cui ben venga l’esordio dei bolognesi Tersø. Che utilizzano un linguaggio fin troppo sfruttato come quello del Synth Pop, per produrre un lavoro che riesce a staccarsi dall’affollata compagnia dell’aurea mediocritas, per andare a recitare la parte da protagonista.

Il quartetto (Luca Ferriani, Alessandro Renzetti, Alessio Festuccia, Marta Moretti) perfeziona le già buone intuizioni dell’ep “L’altra parte”, affida nuovamente il mixaggio all’esperienza di Marco Caldera, chiama Bruno Bellissimo a suonare il basso nella traccia migliore del disco (“Le promesse”, manifesto generazionale di impietosa lucidità) e per il resto lascia libera l’ispirazione, appoggiando le meravigliose linee vocali di Marta, comunicanti spleen e consapevolezza del declino, su un lavoro di Synth vivace e stratificato, prodotto con grande attenzione alle dinamiche e allo sviluppo di ogni singolo pezzo.

Il risultato sono 30 minuti pericolosamente vicini alla perfezione, dove l’atmosfera è triste, a tratti rassegnata ma si riesce a ballare lo stesso, grazie anche a ritornelli tutti clamorosamente indovinati.

Certo, rimane che “Fuori dalla giungla” fotografa una generazione alla deriva, stretta tra il caos della realtà quotidiana e il sovraccaricarsi degli input, e tuttavia impossibilitata a trovare la strada della propria realizzazione. Rimane la consolazione di “guardare un film di Lynch fino a non capirci niente” (questo utilizzo costante, quasi ossessivo, delle icone della cultura contemporanea è ormai uno dei tratti distintivi della nuova scrittura musicale nel nostro paese), affidare la nostra interiorità a frasi banali stampate sulle magliette, domandarsi se “un giorno davvero riusciremo ad essere diversi da quello che sembra”.

Esiste una via d’uscita? Oppure bisognerà continuare a dire che “Siamo come i petali di ciliegio che sembrano neve a primavera”, in un’eterna ricerca di identità e sicurezze, costantemente smentita dalle circostanze?

Impossibile dire come parleremo dei dischi usciti negli anni ’10, quando quest’epoca ce la saremo definitivamente lasciata alle spalle.

Probabilmente però i Tersø verranno ricordati come coloro che, invece di indulgere al cazzeggio frivolo, divertente ma alla lunga inconsistente, hanno scelto di guardare in faccia la realtà e descriverla con spietatezza, utilizzando colori scuri che risultano comunque tremendamente affascinanti. Può anche darsi che, come mi ha detto Marta quando l’ho intervistata, la musica abbia sempre avuto questo ruolo, raccontare il proprio tempo da una prospettiva scomoda, da perenne outsider. Eppure, non si può fare a meno di elogiare questi giovani bolognesi per aver realizzato un disco drammaticamente contemporaneo. Che per una volta parla una lingua che anche i quarantenni saranno in grado di capire. Scusate se è poco.