Era il 1997 quando Michael Haneke girava per la prima volta il suo Funny games, lo faceva in Austria, sua patria adottiva (il regista nasce in realtà in Germania, a Monaco di Baviera) con attori di lingua tedesca. Il film fu poi presentato al cinquantesimo Festival di Cannes dove passò inosservato senza riscuotere particolare successo.
Dieci anni più tardi il regista decide (accetta?) di farne un remake statunitense per offrire alla sua opera la possibilità di arrivare a un pubblico più vasto, si passa quindi alla lingua inglese e si punta su un cast di grandi star all'interno del quale spiccano i nomi di Naomi Watts, Tim Roth e Michael Pitt. Haneke sceglie la via del rifacimento fotocopia, gira il suo remake scena per scena ricostruendo con precisione il film di dieci anni prima, cambiandone ovviamente location e protagonisti, un po' la stessa operazione in cui si imbarcò Gus Van Sant con il rifacimento dello Psycho di Hitchcock, operazione indubbiamente coraggiosa con la quale Van Sant si prese una buona dose di rischio.
Per Haneke la situazione era un poco diversa, non andava a scomodare nessun mostro sacro e metteva mano a materiale già di sua proprietà con il vantaggio di aumentarne la diffusione e se possibile aggiungere qualche chiave di lettura alla sua opera tutta da decifrare, Funny games ha infatti generato una serie di interpretazioni e la ricerca di chiavi di lettura da parte della critica e di quel pubblico più attento alle intenzioni degli autori e ai livelli di significato nascosti all'interno delle loro creazioni.
Una famigliola felice è in auto diretta verso la loro casa di villeggiatura in riva al lago, papà George (Tim Roth) e mamma Ann (Naomi Watts) giocano a indovinare gli autori di arie d'opera estratte dai loro cd, il piccolo Georgie (Devon Gearhart) dal sedile posteriore li guarda divertito. Una volta al lago i due George si dedicano alla manutenzione della loro piccola barca a vela, Ann inizia a sistemare delle cose in casa. Dopo qualche minuto alla porta si presenta il giovane e goffo Peter (Brady Corbet) in perfetta tenuta da golfista, il ragazzo è ospite dei vicini di casa ed è venuto a chiedere ad Ann delle uova per conto appunto della vicina.
Dopo che Peter ha combinato qualche pasticcio con le uova ed è riuscito a far perdere la pazienza ad Ann sulla porta si presenta il suo compare Paul (Michael Pitt), anche lui in tenuta da golfista; per mezzo di quelle che sembrano delle provocazioni studiate ad arte i due ragazzi diventano sempre meno educati e la tensione in casa sale, nel frattempo rientrano anche il marito e il figlio di Ann.
Dopo qualche alterco la situazione ben presto precipita, i due ragazzi si rivelano per quello che sono, due squilibrati ben disposti a usare violenza e a esercitare ogni tipo di crudeltà per ottenere un po' di quello che considerano una sorta di malato divertimento. I due coniugi e il loro bambino si troveranno in una situazione d'impotenza dalla quale sarà difficile uscire.
Funny games è un film a tema che ha come punto nodale la violenza, in questo caso gratuita, e il suo consumo nella cultura di massa, in particolare nelle visioni cinematografiche o domestiche. Ne consegue tutto un discorso su quanto possa essere deleterio (o almeno punto su cui riflettere) il fatto che a questa violenza lo spettatore si sia ormai assuefatto e abituato, tanto da non provare più nessuna emozione di fronte a episodi come quelli mostrati nel film che, a dispetto di tutto, mantiene appunto un registro molto freddo e distaccato.
Non è l'unico film in cui Haneke ci fa riflettere sulle conseguenze del rapporto che ognuno di noi ha con la violenza (in alcuni casi senza mostrarcela apertamente); ne è un esempio il pluripremiato Il nastro bianco, film di tutt'altro genere che arriverà un paio d'anni dopo questo Funny games, ma che ha delle connotazioni che riverberano in armonia con il suo predecessore.
Come accadeva con il film appena citato, anche Funny games è un film che acquista valore a posteriori, quando la riflessione su ciò che il regista ha messo in scena è ormai in moto; in entrambi i casi per chi scrive è possibile affermare di aver apprezzato l'idea e le intenzione alla base dei film di Haneke, anche molto nel caso de Il nastro bianco, ma di non aver amato in modo particolare nessuna delle due opere.
Haneke ci catapulta in quello che dovrebbe essere un film appartenente al filone dell'home invasion privando però lo spettatore del conflitto, la direzione degli eventi è qui a senso unico e anche quando arriva il momento del possibile tripudio per lo spettatore, tripudio ovviamente legato a un po' di (in)sana violenza. Haneke scombina le carte in tavola tornando alla sua struttura a tema, spezzando le regole della narrazione classica, ergendosi così a deus ex machina di una vicenda che già in precedenza aveva mostrato regole libere con la rottura della quarta parete.
Film interessante su cui riflettere, ben girato ma che nonostante le ottime prove dei suoi interpreti, tutti in gran forma (anche se Roth ha dichiarato che girare Funny games è stata un'esperienza davvero dura), sembra infilarsi più nel cervello che non nel cuore o nella pancia, scelta con tutta probabilità cercata da Haneke. Chi scrive continua a preferire cuore e pancia alla testa, ma in base alle inclinazioni di ognuno Funny games potrà essere considerato un gran film o solo un buono spunto per riflessioni interessanti (che, per carità, non è poco), non resta che scegliere quale delle due opzioni sposare.