Negli ultimi cinque anni, dopo aver chiuso idealmente la prima parte della carriera con la raccolta Songbook (2017), Frank Turner si è divertito a sperimentare, pubblicando prima un album che flirtava con il pop e l’elettronica (Be More Kind, 2018), poi uno marcatamente folk (No Man’s Land, 2019), e infine si è confrontato con i suoi eroi punk NOFX, rileggendone il repertorio nello split West Coast vs. Wessex (2020). Un percorso, questo, solo all’apparenza schizofrenico, dal momento che Turner è parso a suo agio in tutti i contesti e ha potuto così dare sfogo allo scontento germinato durante la lavorazione del pur ottimo Positive Songs for Negative People (2015), un disco – come ha dichiarato retrospettivamente l’artista inglese – forse fin troppo conservatore.
Quando è stato però il momento di decidere quale sarebbe stata la nuova direzione artistica da prendere, Turner – come milioni di altre persone – si è trovato intrappolato in casa. Incapace di stare con le mani in mano, Frank ha alternato i concerti in live streaming alla scrittura delle nuove canzoni, anticipandone alcune in quelle prime dirette casalinghe. Tra queste c’era “The Gathering”, un inno nel quale Turner ha riversato tutto il suo desiderio di tornare a fare musica dal vivo, un pezzo così rappresentativo del nuovo corso che è diventato ben presto anche il primo tassello attorno al quale costruire il nuovo disco.
Entrato all’Abbey Recording Studio di Oxford quando l’allentamento delle restrizioni lo ha consentito, Turner ha iniziato a lavorare al suo nono album assieme al produttore Rich Costey (Foo Fighters, Muse, Interpol), al suo fianco già in Tape Deck Heart (2013), che ha però dovuto seguire le registrazioni e occuparsi del missaggio da remoto dalla California. L’uscita del batterista Nigel Powell dai The Sleeping Souls (la sua band di supporto composta da Ben Lloyd alla chitarra, Tarrant Anderson al basso e Matt Nasir alle tastiere), inoltre, ha costretto Turner a fare ricorso a dei turnisti di lusso. Dietro le pelli troviamo soprattutto Ilian Rubin dei Nine Inch Nails, ma hanno partecipato alle registrazioni anche Jason McGerr dei Death Cab for Cutie (“A Wave Across the Bay”), l’ex Guided by Voices Kevin Fennell (“Little Life”) e Dominic Howard dei Muse (“The Gathering”). Senza contare i camei di Jason Isbell (suo il ficcante assolo di chitarra in “The Gathering”) e Simon Neil dei Biffy Clyro (ai cori in “The Resurrectionists”).
A pensarci bene, è curioso come il disco con più ospiti che Turner abbia mai realizzato sia in realtà anche uno dei più intimi e personali. Non dal punto di vista del sound, magari, dato che qui Frank recupera l’approccio diretto e le chitarre aggressive di England Keep My Bones (2011) e Tape Deck Heart, spingendosi anche in territori hardcore (“Non Serviam”, “My Bad”), quanto piuttosto da quello dei testi, dal momento che l’artista inglese, fresco quarantenne, vede nel cambio di decade un’occasione per fare il bilancio della propria vita. Un esempio in questo senso sono le canzoni dove Turner racconta più apertamente di sé, del difficile rapporto con il padre (in “Miranda” ne ripercorre il percorso di transizione), della dipendenza dalle sostanze stupefacenti (“Untainted Love”), di cosa significhi sentirsi un sopravvissuto (“The Resurrectionists”) e voler andare avanti per la propria strada nonostante il giudizio altrui (“Non Serviam”), per concludere con un commosso ricordo dell’amico Scott Hutchison dei Frightened Rabbit (“A Wave Across the Bay”).
Con un titolo e una grafica ispirata al punk hardcore degli anni Ottanta con il quale Fank è cresciuto, FTHC si conclude con “Farewell to My City”, dove Turner – Londoner purosangue – racconta con emozione come mai abbia deciso di lasciare l’amata capitale per trasferirsi nel più quieto Wessex assieme alla moglie, l’attrice e cantante Jesse Guise: «I got tired of London, not tired of life». E non poteva che essere questa ratifica a un ulteriore nuovo capitolo della sua vita a chiudere il disco più completo e riuscito che Frank Turner abbia finora realizzato.