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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
15/07/2024
Grateful Dead
From The Mars Hotel
Una riedizione come sempre di qualità altissima quella di "From the Mars Hotel" dei Grateful Dead, dall’elegante confezione, alle sempre dettagliate note di copertina (ad opera di Ray Robertson), fino ad arrivare ai contenuti bonus. Ripercorriamo insieme la sua storia.

Pare che una volta Phil Lesh abbia affermato che gli album dei Grateful Dead siano semplicemente degli spot per reclamizzare le loro esibizioni dal vivo. Sia o meno da prendere alla lettera questo giudizio, è vero che nella dimensione dello studio di registrazione la band di San Francisco non è mai riuscita a dare il meglio di sé; hanno sicuramente dalla loro qualche lavoro memorabile (American Beauty su tutti) ma resta il fatto che, da qualunque parte la si voglia guardare, l’unico modo per comprendere davvero quale apporto abbiano fornito alla storia della musica, è quello di andarsi a recuperare una delle loro innumerevoli pubblicazioni dal vivo.

Risulta comunque interessante questa campagna di reissue per il cinquantesimo anniversario dei vari dischi, che la Label del gruppo sta portando avanti assieme alla Rhino Records: non bisogna infatti dimenticare che tutto il gioco di improvvisazioni e Jam varie che da sempre ha reso magici i loro concerti, è basato pur sempre su un repertorio codificato.

 

From the Mars Hotel è uscito nel 1974, in un periodo particolare per la band. L’anno precedente avevano lanciato le loro etichette personali, la Grateful Dead Records e la Round Records, concepite allo scopo di ottenere un maggiore controllo sulle proprie azioni, ed anche con l’idea di poter pubblicare più liberamente i dischi dei progetti paralleli dei vari componenti, che sarebbero probabilmente risultati meno appetibili per le Label tradizionali. In più, a marzo avevano inaugurato il Wall of Sound, il monumentale impianto audio creato con l’intento di offrire la massima resa sonora possibile a delle platee che col passare degli anni diventavano sempre più grandi.

Questo duplice aspetto, tra costi vertiginosi e complicate dinamiche gestionali, caricò il collettivo di problemi che non erano del tutto pronti a gestire (oltretutto parliamo di musicisti che non erano certo noti per il rigore e la disciplina) e che si sarebbero fatti sentire nel periodo immediatamente successivo, con la decisione di interrompere l’attività live a tempo indeterminato (lo stesso Wall of Sound fu abbandonato dopo soli 37 show, in quanto troppo complicato e costoso da portare avanti).

 

Nel maggio del 1974, tuttavia, gli umori erano alti: Jerry Garcia aveva appena terminato le lavorazioni del suo secondo disco solista, Garcia (Compliments of Garcia), le vendite del precedente Wake of the Flood, il primo lavoro pubblicato in autonomia, erano andate molto bene, nonostante tutti i problemi di pirateria che c’erano stati,  ed il tour procedeva alla grande.

Alcune ombre erano però in agguato: il dover continuamente far quadrare i conti portava la band a cimentarsi in una frenetica attività live, che minava in profondità gli equilibri psicofisici dei vari membri. Il consumo di cocaina era altissimo, in una generale atmosfera autodistruttiva che portò Robert Hunter, storico paroliere di Garcia, a paragonare il gruppo al serpente Ouroboros, la celebre creatura della mitologia nordica, raffigurata mentre si morde la coda: insostenibili ritmi di lavoro ed eccessi stavano creando un circolo vizioso che alla lunga li avrebbe consumati.

Come sempre, entrare in studio per i Dead non voleva dire realizzare un prodotto caratterizzato da una coerenza interna, bensì assemblare una mera raccolta di canzoni, pescando quasi interamente da materiale già da tempo rodato in sede live (in questo senso, se volessimo rovesciare la citazione con cui abbiamo iniziato, potremmo dire che un’altra funzione dei concerti dei Grateful Dead era quella di testare le canzoni inedite che sarebbero poi finite sui dischi).

 

Ispirato ad un hotel con quello stesso nome, situato nei pressi dei CBS Studios di San Francisco dove hanno registrato, e raffigurato in un’affascinante copertina dal tema fantascientifico, From the Mars Hotel è ben lontano, per coesione e livello delle canzoni, dai tre dischi precedenti. Ciononostante, contiene alcuni brani che sarebbero immediatamente divenuti classici del repertorio. Innanzitutto l’iniziale “U.S. Blues”, già suonata a lungo col titolo di “Wave That Flag”, un rock dal piglio energico e dal ritornello coinvolgente, che dietro al ritmo vivace e alle atmosfere solari racchiude una critica pesante all’aggressività della politica estera americana (erano ancora gli anni in cui imperversava la guerra del Vietnam) e che rimarrà uno dei contributi più celebri di Bob Weir alla discografia della band; poi “China Doll”, firmata dalla coppia Garcia/Hunter, straziante ballata sul tema dei suicidio, che si inserisce direttamente tra le composizioni più ispirate della loro carriera.

“Scarlet Begonias” è un’altra perla di Garcia, che negli anni successivi verrà fusa dal vivo con “Fire on the Mountain”, creando una vorticosa e trascinante sezione psichedelica.

E poi “Ship of Fools”, un’altra delle grandiose composizioni epiche che hanno contributo a fare di Jerry Garcia uno dei più grandi autori di canzoni della sua generazione. Esiste una teoria non verificata secondo la quale dietro all’immagine della “nave dei folli” si celerebbero i Dead stessi, il cui complicato momento è stato immortalato da Hunter sotto forma di metafora. Sia vero o meno, “Ship of Fools” rimane il modo migliore per chiudere il disco, soprattutto per il contrasto che crea, a livello di umore, con il ben più vivace opener.

Che non sia un lavoro perfettamente riuscito, però, lo si vede dal fatto che l’altra metà dei brani non  ha praticamente mai trovato spazio nelle setlist dei concerti: se il caso di “Unbroken Chain”, scritta da Lesh, risulta effettivamente inspiegabile, visto che si tratta di un gran pezzo, oltretutto impreziosito da un’interessante Jam nella sua parte centrale, le restanti tre costituiscono dei meri filler. Forse la migliore è “Loose Lucy”, che effettivamente nei concerti è comparsa un po’ di più; “Pride of Cucamonga” è leggerina e trascurabile, “Money Money”, a firma Weir, è un rock piuttosto standard il cui testo, storia curiosa, è stato tacciato di misoginia e forse anche per tale motivo è stato del tutto accantonato dopo sole tre esecuzioni dal vivo.

 

From the Mars Hotel è un lavoro significativo anche perché marca la fine di un’era: a settembre la band si imbarcherà in un nuovo tour europeo, molto più breve di quello storico del 1972 (sette date e solo tre nazioni toccate, Germania, Francia e Inghilterra) e lì tensioni e stanchezza causeranno concerti non memorabili (in certi casi addirittura disastrosi) e la decisione di dire basta. Ne risulteranno 18 mesi senza live, con Jerry Garcia che ne approfitterà per andare in giro con la sua band (in questi giorni è uscita la registrazione n.21 dei suoi concerti, che si riferisce proprio a quel periodo) e gli altri che, tra progetti paralleli ed altro, ne approfitteranno per ricaricare le pile.

Si tratta però di un’altra storia, che verosimilmente racconteremo nell’agosto del 2025, quando festeggeremo il compleanno di Blues for Allah. Nel frattempo non resta che goderci questa reissue, come sempre di qualità altissima, dall’elegante confezione, alle sempre dettagliate note di copertina (ad opera di Ray Robertson), fino ad arrivare ai contenuti bonus: nello specifico c’è il concerto completo (manca solo l’iniziale “Promised Land”, a causa di un danno irreversibile ai nastri) del 12 maggio 1974 a Reno, Nevada, poche settimane prima che l’album arrivasse nei negozi. Qualità sonora non sempre impeccabile ma energia ed ispirazione assicurate, anche per la presenza del Wall of Sound. Niente di imperdibile, a questo giro, ma si tratta di materiale inedito per cui i completisti avranno senz’altro un motivo per gioire.