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REVIEWSLE RECENSIONI
28/07/2022
Journey
Freedom
Nonostante qualche difetto e l'eccessiva lunghezza della scaletta, i Journey tornano, dopo undici anni, con un disco che non deluderà i fan di vecchia data e che contiene anche momenti all'altezza del loro glorioso passato.

La storia dei Journey inizia a San Francisco nel lontano 1973, ha un picco straordinario di gloria negli anni ’80, con la pubblicazione di tre bestseller che sono diventati leggenda (Captured del 1981, Escape dello stesso anno e Frontiers del 1983), poi, una lenta scomparsa dalle scene, complice l’abbandono del cantante Steve Perry, punteggiata, qua e là, da qualche nuova uscita, non certo memorabile. In tutto questo tempo, la band capitanata da Neal Schon, ha, comunque, mantenuto dritta la barra di un suono immediatamente riconoscibile: anche quando è passata dalla fusion iniziale di scuola Santana (Schon ne era il chitarrista) a un più avvincente arena rock o anche quando ha perso il suo straordinario frontman, il cambiamento non è mai stato così stridente come si sarebbe potuto immaginare. Insomma, i Journey sono rimasti per sempre i Journey.

Non è, quindi, una sorpresa, che questo nuovo Freedom, il loro primo album dopo undici anni, suoni, più o meno, come ce lo saremmo potuto espettare: tecnico, melodico, familiare e prevedibile. Il disco non è certo attraente come Escape, il momento clou della loro carriera, e, in realtà, qualsiasi tentativo di assimilare o riscrivere il loro passato, negli ultimi decenni, non ha mai sortito gli effetti voluti, perché, è quasi inevitabile, che la scrittura abbia perso di smalto e lucentezza. O forse, semplicemente, quel loro suono, immutabile nel tempo, ha dilapidato tutto l’appeal che possedeva quarant’anni fa.

Eppure, Freedom, con i suoi limiti e i suoi difetti, in fin dei conti, è un lavoro riuscito. La formazione è sostanzialmente quella che aveva suonato su Eclipse del 2011 (compreso il cantante filippino Arnel Pineda, scommessa stravinta da Schon), con il bassista co-fondatore Ross Valory sostituito dal turnista Randy Jackson, apparso in due album dei Journey negli anni '80, e un paio di sessionisti a dare manforte al quintetto. A produrre, insieme a Schon e Cain, anche Narada Michael Walden (quello della colonna sonora di Nove Settimane e Mezzo e The Bodyguard), che ha rispettato in pieno il suono Journey, anche se forse, una produzione più asciutta avrebbe giovato, e non poco, all’efficacia della scaletta.

Il cantante Arnel Pineda, con la band dal 2007, è il vero asso nella manica dei Journey, l’unico che ha saputo sostituire Perry, mantenendo lo stesso tasso tecnico, ed è in grado di interpretare, con successo, le complesse linee vocali di canzoni che, molto spesso, ricordano da vicino i giorni di gloria dell'era classica (ascoltate le acrobazie sul tambureggiare e le chitarre stridenti di "You Got The Rest Of Me", ne cito una, per rendervi conto della bravura di questo ragazzo).

In un territorio musicale già ben calpestato, la band si muove a proprio agio, alternando brani più muscolari ("All Day And All The Night", "Let It Rain"), a ballate dall’irresistibile retrogusto zuccherino ("Still Believe In Love", "After Glow"). E quando l’ispirazione dei giorni migliori torna a luccicare, i Journey riescono ancora a piazzare qualche canzone che può tranquillamente convivere, gomito a gomito, con il meglio della loro produzione ("Together We Run", "Life Rolls On", "Don’t Give Up On Us", "The Way We Use To Be").

Il vero problema del disco è, però, l’eccessiva lunghezza: quindici canzoni per circa un’ora e un quarto di minutaggio sono veramente troppe. E troppo spesso, anche le singole tracce, sono tirate per le lunghe. E’ evidente che la caratura tecnica dei protagonisti li porti a stare molto sugli strumenti, ma è altrettanto evidente che certi brani perdano di efficacia e l’intero contesto, alla fine, si faccia un po' troppo verboso. Detto questo, Freedom è un ottimo ritorno sulle scene, che non deluderà i fan di lungo corso della band. A cui, probabilmente, gioverebbe una più accorta gestione in fase di produzione: eliminati gli orpelli e asciugate da qualche eccesso di manierismo, queste canzoni avrebbero una resa diversa e ora, probabilmente, ci staremmo spellando le mani dagli applausi.