Spesso ci dimentichiamo che la musica è una forma d’arte e che, oltre al piacere dell’ascolto e alle emozioni che una buona canzone è capace di suscitare, può (dovrebbe) esistere anche un messaggio sotteso che veicola cultura o impegno civile. Così, quando un album assolve a questa duplice funzione, che ha a che fare sia con la forma che con la sostanza, l’asticella del giudizio inevitabilmente tende ad alzarsi e un semplice disco diventa qualcosa di più, un qualcosa che ha a che fare con l’intelletto e la coscienza. Proprio quello che succede con Freedom Highway, seconda prova in studio a firma Rhiannon Giddens (il primo disco dal titolo Tomorrow Is My Turn è uscito nel 2015), che dopo aver militato nei Carolina Chocolate Drops, ha dato vita a una carriera in solitaria di altissimo livello. Se il citato esordio era sostanzialmente un disco di cover, arricchito da un solo brano originale (Angel City), con Freedom Highway, la Giddens dà vita a una raccolta di brani prevalentemente autografi (sono solo tre le cover), militanti nella sostanza e dalla forte connotazione politica. Una scaletta che racconta la piaga mai cauterizzata del razzismo, la lotta per i diritti civili, la condizione della donna, tutti temi, questi, trattati con consapevolezza storica, con la grinta di chi non smette di combattere e tiene la schiena dritta e lo sguardo rivolto al futuro e alla speranza. Un’opera che, in un’America malata di trumpismo, dove l’etnia e il colore della pelle sembrano tornati a produrre impulsi ferocemente discriminatori, suona come un schieramento deciso e un coraggioso atto d’accusa. In Freedom Highway, la Giddens tratteggia la storia civile dell’America nera e la musica che ha fatto, e fa, da sottofondo alla narrazione: tredici canzoni che si muovono tra il fango del Mississippi e i borghi rurali della Carolina, che partono dalle piantagioni di cotone e attraversano tutto il Sud, spingendosi fino alle periferie ghettizzate delle grandi metropoli. In quest’ottica, Rhiannon sfodera un repertorio in grado di coagulare in tredici canzoni suoni antichi e moderni, in cui la parte del leone la fanno blues, folk e gospel, ma capace anche di incursioni nelle sonorità dixieland della divertita Hey Bebè, nel groove irresistibile di Better Get It Right The First Time, cadenzato dalle ritmiche funky e rap della città, nelle scosse acide di Come Love Come, nei cromatismi jazzy di The Love We Almost Had o nell’epica funky della title track, reinterpretazione di un brano scritto dalle Staple Singers nel 1965, a sostegno di una marcia per i diritti civili avvenuta in Alabama (c’è Bhi Bhiman al canto e alla chitarra). Attraverso una voce duttile e ricca di pathos e un banjo puntuto, solenne e ammaliante, la Giddens compone un vivido songbook delle radici musicali afro-americane, attualizzando la dolente tensione che innervava un brano simbolo come Strange Fruit, e raccontandoci, con linguaggio scarno e diretto, la ballata di un popolo vessato e discriminato e, nel contempo, la tragedia universale di tutti i perseguitati e i reietti. Se non è un capolavoro, poco ci manca.