La stella degli svedesi In Flames, dopo l’uscita del best seller Come Clarity nel 2006, si è decisamente offuscata. Con le successive pubblicazioni, infatti, hanno fortemente diviso i propri fan, alcuni dei quali convinti che il gruppo avesse abbracciato logiche commerciali, lucrose ma poco ispirate, altri, invece, decisamente irriducibili, hanno sposato alcune scelte non proprio coerenti, in nome di quella che sembrava la capitalizzazione di un nuovo potenziale. Quel che sia, è un dato di fatto che da allora la band abbia perso la bussola e la propria coerenza espositiva, e certi dischi come Siren Charms e Battles, anche a voler essere benevoli, erano obiettivamente inascoltabili: la cacofonia, il furore e gli eccessi rumoristici che da sempre erano un marchio di fabbrica dei ragazzi di Göteborg si erano trasformati in un fastidioso sussurro, tanto che in pochi confidavano in una possibile rinascita.
I, The Mask del 2019 aveva acceso una piccola luce alla fine del tunnel, un barlume di speranza per quei fan che una volta li adoravano e anche per quelli che, nonostante tutto, non hanno mollato il colpo. Sebbene non fosse un disco perfetto, quanto meno era un passo nella giusta direzione. La domanda, quindi, è abbastanza scontata: cosa aspettarsi da una grande band la cui ispirazione è ormai un ricordo lontano? Come sarà questo nuovo Foregone, atteso da molti come una decisiva resa dei conti? Beh, senza fare proclami altisonanti, questo nuovo album è probabilmente il migliore degli In Flames da vent’anni a questa parte.
Rinvigorita la line up con l’ex Megadeth Chris Broderick, la grinta e il groove sono tornati a essere centrali, e la band sembra voler gridare al mondo intero che è rinata dalle ceneri di un glorioso passato. Forse, non è proprio così, ma, accidenti, rispetto ai lavori precedenti, qui sembra di essere nel paese dei balocchi, dove tutto barluccica e riempie gli occhi di gioia.
Chitarra acustica e violoncello aprono il disco con un caldo benvenuto a tutti quei fan che non si sono mai arresi. Un momento morbido che viene spazzato via dalla furia di "State Of Slow Decay", una canzone feroce che rimette le cose a posto e ti fa esclamare: “Eccoli, sono tornati!” Le chitarre sferragliano come ai bei vecchi tempi, mentre il frontman Anders Fridén ringhia sopra le righe con il suo caratteristico timbro, e il ritornello pulito, e bellissimo, ricorda le cose migliori di Come Clarity.
"Meet Your Maker" è un’altra grande canzone, un’altra zampata dei vecchi leoni. "Alla fine della mascherata, il tuo tempo è scaduto e ora c'è l'inferno da pagare", canta Fridén durante il ritornello, mettendo in chiaro quale sarà il mood di tutto il disco: liriche che aggrediscono lo status quo dell’umanità, ripercorrono gli ultimi terribili anni, ammantando la scaletta di un pessimismo oscuro, che non conosce il barlume della speranza. L'assolo di chitarra è il primo assaggio della bravura di Broderick, uno dei chitarristi più sottovalutati in circolazione, la cui sei corde lascia il segno anche sulla successiva "Bleeding Out".
Le chitarre hanno un ruolo più centrale rispetto ai precedenti lavori, e spesso i riff colpiscono al volto come un uppercut esiziale, come avviene, ad esempio, in "Foregone Pt 1", uno dei brani più pesanti del lotto. La title track è divisa in due parti, la prima più aggressiva e la seconda più morbida, dicotomia, questa, che crea un riuscitissimo equilibrio. Friden da tempo non cantava così bene, alternando il solito feroce screaming alle parti pulite, mai così convincenti.
Certo, la band ha completato il suo processo di americanizzazione, e forse questo è il vero limite del disco. Una canzone come "Pure Light Of Mind" ha senso solo in un’ottica commerciale, è un numero buono per quegli adolescenti che non sono abbastanza arrabbiati per ascoltare del death metal in purezza. Eppure, rispetto al passato, la sensazione è quella di una band più consapevole, che riesce comunque a tenere la barra senza scadere (troppo) nel banale. Lo dimostra anche la seconda metà dell'album, meno riuscita della prima, ma comunque convincente, che crea un mix equilibrato tra ferocia (ce ne vorrebbe di più) e melodia (ce ne vorrebbe un po’ meno): brani come "In The Dark" e "A Dialogue In B Flat Minor" dimostrano che gli In Flames hanno in parte ritrovato l’antico smalto e sono ancora in grado di scrivere ritornelli memorabili.
Così, quando parte la conclusiva "End Transmission", è facile immaginare i fan della band sfoggiare un sorriso d’apprezzamento che mancava da tanto tempo.
Attenzione, però: Foregone non è il capolavoro di cui alcuni parlano, spinti probabilmente dall’entusiasmo di ritrovare una band finalmente in palla. E’ un buon disco, il migliore da anni a questa parte, ma suona anche come un disco di transizione, un passo deciso verso una ritrovata ispirazione, ma ancora non del tutto convincente. Gli In Flames sono una band matura e consapevole, che giostra con sapienza su un suono a metà strada fra il melodico e il feroce. In questo sono maestri, non c’è dubbio. Ma certe scelte stilistiche che guardano al mercato americano, a parere di chi scrive, dovrebbero essere accantonate immediatamente. Solo così sarà possibile tornare alla grandezza dei tempi d’oro.