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REVIEWSLE RECENSIONI
For The First Time
Black Country, New Road
2021  (Ninja Tune)
IL DISCO DELLA SETTIMANA EXPERIMENTAL/AVANT-GARDE POST-PUNK/NEW WAVE ALTERNATIVE
9/10
all REVIEWS
15/02/2021
Black Country, New Road
For The First Time
Non tanto per quello che suonano ma per come lo interpretano, i Black Country, New Road fanno parte di una possibile nuova ondata di band che potrebbe riuscire a farci sorprendere ancora una volta per una proposta che credevamo ormai di conoscere alla perfezione.

Ci fosse stato Il Primavera lo scorso anno, sarebbero stati uno dei miei must see personali. E oggi che abbiamo finalmente tra le mani il loro album d’esordio, possiamo realizzare fino in fondo che cosa ci siamo persi a non vederli in azione dal vivo.

Perché il loro Post Rock con l’aggiunta di parti vocali, contaminato con le costruzioni Math dei connazionali e compagni di studi black midi, con le fughe in spazi aperti che ricordano in più di un punto i Lift To Experience di Josh T. Pearson, è quanto di meglio potreste sentire in questo scorcio iniziale di 2021.

Prendono il nome da un’area delle West Midlands, a ovest di Birmingham, industria pesante e paesaggi di cupa desolazione bagnata dalla pioggia, sono in sette e a vederli nelle foto promozionali, con le loro facce giovani e serene, non diresti mai che sono gli autori di musica tanto ambigua e dissociata.

Hanno provenienze diverse, una metà di loro ha studiato musica all’università, l’altra ha una formazione più da autodidatta e quasi tutti avevano già suonato insieme nei Nervous Conditions, scioltisi poi nel 2018 in seguito alle accuse di molestie sessuali rivolte al loro cantante Connor Browne.

Il nucleo centrale della band si è ripreso in fretta, ha reclutato Isaac Wood dietro il microfono, si è dato un nuovo nome e ha fatto impazzire il web con un paio di singoli che gli hanno valso immediatamente uno slot nei principali festival estivi (come poi è andata, lo sappiamo tutti).

Oggi i Black Country, New Road escono con “For the First Time”, che presenta per lo più materiale già pubblicato in precedenza (di un paio di brani sono stati modificate parti del testo, perché Isaac sentiva di volerli adeguare al vissuto degli ultimi mesi) più due tracce totalmente inedite. E che sia già potenzialmente uno dei dischi dell’anno, possiamo evincerlo dal modo in cui questi ragazzi suonano assieme, utilizzando codici espressivi datati e fin troppo praticati (il paragone con gli Slint, che è quello che si legge di più in giro, permette di capire molte cose) ma riuscendo comunque a provocare più di un brivido lungo la schiena, attraverso continui cambi di tempo e di dinamica, l’utilizzo del sax e del violino combinato con le percussioni e una leggera spruzzata di elettronica nei punti giusti.

Per rendersi conto di quel che sono capaci di fare basterebbero già i cinque minuti abbondanti dell’iniziale “Instrumental”, con l’inizio roboante della sezione ritmica (a proposito, particolare curioso, al basso c’è Tyler Hyde, figlia di  Karl degli Underworld) e un violino, successivamente doppiato dal sax, che richiama fortemente la musica cosiddetta “klezmer” degli ebrei aschenaziti che alcuni dei membri del gruppo hanno studiato alla Guildhall School di Londra.

La successiva “Athens, France” introduce la voce di Isaac Wood, un salmodiare inquietante a metà tra Scott Walker (lui stesso vi si paragona ironicamente in “Sunglasses”, dove viene evocata anche la figura di Richard Hell)  e Mark E. Smith, un timbro a tratti sgraziato ma anche profondamente magnetico e inquietante. È un elemento che in un primo tempo disturba, tanto che viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio avere avuto un disco interamente strumentale. Successivamente però quella voce penetra sotto pelle e ci si accorge che è un tutt’uno con la musica, ne segue gli spostamenti e in una certa misura ne determina gli umori; e poi ci sono i testi, così violentemente sinceri e così magnificamente scritti, un libero flusso di pensieri dove l’Inghilterra emerge nella sua dimensione storica ma diviene anche proiezione esistenziale e autobiografica, in una profondità di visione che oggi ha davvero pochi eguali.

Per il resto, oggi singolo episodio è un piccolo gioiello, da “Science Fair”, col suo crescendo di stampo sciamanico che esplode in una cacofonia impazzita di violino e sax, forse il brano dove le melodie oblique e le spigolosità sonore sono più evidenti; fino ad arrivare a “Sunglasses”, che coi suoi nove minuti costituisce l’autentico centro del lavoro, un percorso costante, dal minuto iniziale di feedback chitarristico, passando per il tempo sghembo di batteria e le sue linee vocali drammatiche, giungendo poi ad una seconda parte pazzesca, col tempo che accelera e un sax che ricama sotto le linee vocali, in un’atmosfera di tensione spasmodica e ritmiche che pulsano nervose.

Bellissima anche “Opus”, che in otto minuti riassume un po’ tutti gli ingredienti assaggiati in precedenza, dalle melodie klezmer alla vocalità cupa, i rallentamenti e le improvvise accelerazioni, il sax di Lewis Evans e il violino di Georgia Ellery che contribuiscono a creare quelle atmosfere artsy che sono una delle caratteristiche più piacevoli di questo disco.

Non tanto per quello che suonano ma per come lo interpretano, i Black Country, New Road fanno parte di una possibile nuova ondata di band che potrebbe riuscire a farci sorprendere ancora una volta per una proposta che credevamo ormai di conoscere alla perfezione.

E li vedremo al Primavera, uno dei prossimi anni; e anche in Italia, certo, se alla fine di tutto questo rimarranno dei locali per organizzare concerti…


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