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REVIEWSLE RECENSIONI
08/01/2018
The Replacements
For Sale: Live at Maxwell's 1986
Non dovessimo davvero vederli più in azione (la reunion del 2015, peraltro ben lontana dalla formazione originale, non è andata proprio benissimo), questo live sarà tutto ciò che potremo desiderare per mantenerne vivo il ricordo.

La storia che ci è stata raccontata su questo disco non è poi forse così vera: il ritrovamento di un nastro polveroso contenente un intero concerto della band, catturato mediante uno studio mobile, con una qualità di registrazione sorprendentemente buona e con una performance (cosa davvero sensazionale, questa) tecnicamente valida e priva di errori grossolani, loro che la leggenda dice fossero quasi sempre troppo ubriachi per suonare in modo decente.

Ad ogni modo, questo live immortalato nella città natale di Frank Sinatra, in quello che era senza dubbio il periodo di grazia del quartetto di Minneapolis, era tutto tranne che inedito. Circolava da anni in versione bootleg anche se immagino che la qualità dovesse essere di molto inferiore a questa.

Ma va bene così, nessuno ha intenzione di lamentarsi: Bob Mehr, che ha già scritto una biografia del gruppo e che si è occupato della produzione di questa uscita, ha lavorato benissimo con Rhino Records, sempre più numero uno nel mercato delle ristampe, e ci ha regalato un prodotto di altissima qualità. Certo, il fan accanito e il collezionista avrebbero magari desiderato una registrazione totalmente inedita (è la stessa “polemica” che si è presentata con la pubblicazione di “Trouble No More” di Dylan) ma anche l’orecchio vuole la sua parte e poi, diciamocelo, ora che i mezzi tecnici sono migliorati e il modo di fruire la musica è mutato in maniera decisiva, probabilmente le incisioni “clandestine” di un tempo potrebbero anche aver fatto il loro tempo.

Di “For Sale: Live at Maxwell’s 1986” si possono dire solo due cose, per tagliare corto: suona da Dio ed è da avere a tutti i costi. Per anni è rimasta famosa la risposta del chitarrista Tommy Stinson (qui alla sua ultima tournée col gruppo) alla domanda sul perché non avessero mai pubblicato un live ufficiale (ne avevano fatto uno su cassetta ma suonava da schifo): “Perché non ce ne sono in giro di abbastanza buoni!”.

Ecco, i fan sapevano che non era vero, visto che questo nastro circolava già da parecchio, eppure adesso che lo possiamo sentire tutti, scopriamo che dopotutto quei quattro ragazzini non erano poi così incapaci come volevano far credere.

Il periodo è quello giusto: la band aveva già fatto il botto con “Let It Be”, uscito nel 1984 e considerato quasi all’unanimità il loro assoluto capolavoro e aveva da poco bissato con “Tim”; un disco che, a dir la verità, è difficile dire se sia o meno superiore al precedente. Il tour era proprio quello di supporto a quel lavoro, il quinto della loro discografia (contando anche l’ep “Stink”) ed è dunque abbastanza naturale che la scaletta proposta fosse decisamente da urlo.

Paul Westerberg, del resto, è sempre stato un songwriter eccezionale, tra i migliori della sua generazione e di tutto il panorama del rock americano. Non se ne è mai accorto nessuno o meglio, non ha mai ricevuto i consensi che avrebbe meritato di ricevere. Eppure, che avrebbero seguito fedelmente fino alla fine la strada dell’Hardcore, come i loro primi vagiti discografici lasciavano presagire, non ci credevano in molti.

Il concerto inizia proprio così, con una doppietta clamorosa composta da “Hayday” e “Color Me Impressed” vale a dire (soprattutto la seconda) la prova provata che la velocità e la furia distruttiva stavano iniziando a lasciare posto ad un gusto per la melodia che negli anni avrebbe loro permesso di scrivere tanti brani indimenticabili e di far sbarcare il lunario al loro leader con una carriera solista di tutto rispetto.

Tra la ribellione furibonda dell’Hardcore e l’epica della grande canzone americana: ecco i due territori dove si muovono i Replacements. Oppure, per dirla con una celebre affermazione del loro cantante e autore: “La mia scrittura è fatta di melodia e onestà. Se mi accorgo di zoppicare un po' su uno dei due elementi, cerco di concentrarmi sull'altro, e viceversa.”.

Su questo live è la componente più “classica” che si fa sentire appieno. È il tour di “Tim”, appunto, e ormai da qualche anno il gruppo era maturato e si confrontava con sonorità più aperte, esplorando tutte le sfumature principali della grande canzone a stelle e strisce. Naturale dunque che il concerto sia tutta una lunga carrellata di inni già assurti al livello di classici: “Dose of Thunder”, “Hold My Life”, “I Will Dare”, “Favorite Thing”, “Unsatisfied” e soprattutto le due pazzesche hit “Bastards of Young” e “Kiss Me On The Bus”, allora appena uscite ma probabilmente già simbolo di una band che come poche ha saputo raccontare il disincanto un po' frustrato di quella generazione di Teenager americani.

Ci sono dunque quei due album eseguiti quasi per intero a rappresentare la parte più succosa ma anche quando i quattro si lanciano negli episodi più datati (da “Takin A Ride” a “Take Me Down To The Hospital”, fino alla conclusiva “Fuck School”) non si scherza per nulla.

Sparse qua e là, non mancano le cover: a parte la “Black Diamond” dei Kiss già incisa in studio e una “Fox On The Run” (The Sweet) cominciata ma interrotta dopo un minuto scarso (hanno suonato bene ma proprio lucidissimi non dovevano essere) abbiamo un bel trittico nel finale composto da “Baby Strange” (T. Rex), “Hitchin’ a Ride” (Vanity Fare) e una straordinaria “Nowhere Man” che mostra come avrebbe potuto suonarla John Lennon se fosse stato fatto di anfetamine e disposto a lasciar fuori cori e armonizzazioni varie.

Il tutto eseguito alla velocità della luce, con cattiveria ma anche con una buona dose di divertimento e un Westerberg che non si risparmia, spingendo la sua voce oltre il limite umanamente sostenibile. Qualche pausa di troppo tra un brano e l’altro, forse per riprendersi dai fumi dell’alcool o, piuttosto, per lasciar libero sfogo ad essi (non abbiamo il video ma a giudicare da quel che si sente negli intermezzi il clima era tutt’altro che sobria).

Non mi viene francamente in mente nulla che sia meglio di questo disco per tramandare al meglio, in forma il più possibile vicino alla perfezione, il lascito di un gruppo che non avrà forse goduto del successo commerciale ma che ha scritto lo stesso una pagina indelebile nella storia del rock.

Non dovessimo davvero vederli più in azione (la reunion del 2015, peraltro ben lontana dalla formazione originale, non è andata proprio benissimo), questo live sarà tutto ciò che potremo desiderare per mantenerne vivo il ricordo.