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REVIEWSLE RECENSIONI
28/01/2019
Joe Jackson
Fool
“Forza, dimmelo in faccia cosa dovrei fare per sentirmi parte della razza umana, o magari sussurrami all’orecchio quel che dovrei voler sentire, tipo che sono fascista o un pazzo che non ha frequentato scuole snob, uno che sbaglia quando usa il telecomando, figuriamoci quando vota” (Joe Jackson, 'Fabulously Absolute')

Cari miei, quando sono venuto a conoscenza della pubblicazione di un nuovo album di Joe Jackson e che questo sarebbe stato orientato verso il rock ho avuto paura. Sì, perché conoscendo l’eccentricità del musicista lì per lì temevo che se ne sarebbe uscito con una pappardella che mischiasse roba indigeribile, chessó il grunge con gorgheggi alla Freddie Mercury e sgrattugiate di chitarra alla The Edge, insomma una roba indigeribile, almeno per il sottoscritto, qualcosa che avrebbe avuto a che fare con il “ruock” (si, dai, quella roba che passa su Virgin Radio, e che va pronunciata come una jam vocale alla Ligapelù e saremmo stati comunque fortunati perché comunque ci saremmo persi per strada il Jova) e che avesse rinnegato quello che asserì con non poca presunzione nel momento del suo maggior successo, ovvero che il rock fosse morto (facendo incazzare un bel po’ di “ruokkettari) al punto da scrivere sul retro della copertina di “Body and Soul” che nessuna chitarra elettrica era stata utilizzata nella stesura del disco.

Per fortuna niente di tutto questo, anzi, posso ben dire che “Fool” sia già un album che se ne andrà dritto dritto nella mia top ten del 2019.

Cazzo, Leo, ma davvero?

Sì, davvero.

Il buon Joe Jackson qui è su livelli stratosferici, tanto più che “Fool” è il capitolo finale, quasi come fosse l’anello mancante (com’era la storia? un Anello per domarli, un Anello per trovarli, un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli) di quei due capolavori che ebbero il loro inizio con “Night and Day” passando per “Body and Soul”; insomma con questo nuovo disco posso dire che chiudiamo il cerchio dopo quasi quarant’anni.

“Fool” è stato registrato negli ultimi giorni di Luglio del 2018 e mixato il mese successivo, suonato dallo stesso Jackson al piano con Teddy Kumpel alla chitarra, Doug Yowell alla batteria e Graham Maby al basso. Le canzoni, otto, per una durata ottimale di 40 minuti - sì, proprio come usava fare una volta -, tutte composizioni originali dell’artista inglese, giungono da una decisa scrematura effettuata dallo stesso Jackson, di brani non all’altezza o rimasti a metà strada.

Stupisce come tutti i pezzi siano di una qualità come da tempo non riuscivo a sentire, e finalmente ci è dato di ascoltare davvero poco di derivativo, se non appunto qualcosa piluccata qua e là dai due album capolavoro succitati.

Apre le danze “Big Black Cloud” e una rullata di tamburo ci introduce nelle storie di “Fool”, storie di “tragedia e commedia, rabbia e paura, alienazione e perdita e di tutto quello per cui vale la pena vivere”.

Una canzone, questa, a metà strada tra il rock a basso grado di ruffianeria e il pop più intelligente, potente e melodico. Ma questo è solo l’antipasto e la successiva “Faboulously Absolute” ci riporta ai tempi di “Look Sharp”, pulsioni punk ed un testo che chiarisce bene da che parte stia Jackson, che assesta un calcio nei coglioni ai luogocomunisti che come tante scimmiette ammaestrate ripetono come un mantra le frasi fatte ascoltate nei talk show politici e lette sui media mainstream. Tanto per intenderci, questo è un passo del testo: “Forza, dimmelo in faccia cosa dovrei fare per sentirmi parte della razza umana, o magari sussurrami all’orecchio quel che dovrei voler sentire, tipo che sono fascista o un pazzo che non ha frequentato scuole snob, uno che sbaglia quando usa il telecomando, figuriamoci quando vota”.

Non manca certo il coraggio al nostro, lo ha dimostrato ampiamente nel corso degli anni, e con un testo così farà alzare il sopracciglio dell’alterigia e della perplessità ai maestrini del bon ton da apericena equa e solidale.

Passata questa gloriosa sfuriata il disco fa un tuffo carpiato di trecentosessanta gradi ed approda al british pop di “Dave” uno dei punti più alti dell’intero lavoro, a mezza strada tra Kinks e McCartney, storia di una persona semplice che vive la sua vita con tranquillità e senza rimpianti.

Il sentirsi straniero in una terra che credevi amica è la cifra di “Strange Land”, canzone dolente cantata magnificamente da Jackson la cui voce pare che non abbia subito il passare del tempo e fortunatamente non utilizza l’autotune.

Altro giro e con “Friend Better” con quel cavolo di di chitarra blues (calma eh, non vi farà venire il latte ai coglioni) che mi riporta a qualcosa di familiare; ecco, sì, la ditta Fagen/Becker! Stai a vedere che di nascosto Jackson si diletta ad ascoltare gli Steely Dan. Comunque, il brano è ben lontano da esserne una copia carbone, quel che ne esce è tutta farina del sacco dell’artista inglese.

Ma è con la title-track che torniamo indietro ai tempi d’oro di Jackson e a quel “Night and Day” che meravigliò il mondo. Una melodia orientaleggiante ci accoglie e ci fa volare su di un immaginario tappeto, su e giù come su di ottovolante, il ritmo si fa frenetico, il testo è un inno ai “giullari”, a tutti quelli che si prendono gioco delle convenzioni e dei piccoli Cesari che dall’alto della loro misera supponenza ti cacano il cazzo ventiquattr’ore al giorno. Il break poi: la melodia orientale si stoppa e diventa ritmo latino, ma ben lontano dalla merda reggaeton e commerciale che ci ammorba come le zanzare durante l’estate.

Arrivati a questo punto, potremmo essere già sazi di quel che abbiamo ascoltato, ma non ci basta: se con “Friend Better” abbiamo sfiorato lo stato dell’arte della canzone pop, con “32 Kisses” il miracolo si compie. Le note del piano, malinconiche ed evocative, ci raccontano la vita di un uomo come qualunque altro, che vede crescere i suoi figli, nient’altro che la vita, la fortuna di avere una vita e di viverla con chi più ami.

A posto così? Nemmeno per idea. Dai, l’ultimo pezzo sarà il solito riempitivo per chiudere un disco già notevole di per sé. Invece no. Cosa manca ancora a questo album per diventare un capolavoro conclamato di quella forma di arte chiamata musica pop? Ma certo, eccole quelle note, ecco che fa capolino Burt Bacharach, che bussa piano alla porta e la lascia accostata appena appena per farci entrare quel mood da bachelor party che arieggia in tutto “Alchemy”, canto del cigno di un disco e di un percorso musicale nato quarant’anni fa.

Possiamo esserne certi, anche se sperare non costa niente, che se anche questo fosse l’ultimo disco della carriera di Jackson o se questi si dedicasse al gamelan balinese per il resto dei suoi giorni, non avrò più la presunzione di chiedere altro e di chiedere di meglio.

Grazie, amico mio che manco mi conosci, che con la tua musica hai accompagnato la mia vita in tutti questi anni, un semplice grazie, dal profondo del cuore.

Disco dell'anno? Probabilmente sì...