Che uno dei dibattiti del momento a livello musicale sia incentrato sul valore, reale o presunto, dei Fontaines DC, dice della reale caratura che ha raggiunto questa band. Skinty Fia, terzo disco in tre anni, li ha proiettati ad un livello di popolarità decisamente alto, forse ancora più alto di quello di cui godettero Interpol ed Editors al loro primo affacciarsi sulla scena internazionale.
Qualcuno ieri, a concerto terminato, mi faceva il nome degli Arctic Monkeys e, fatte salve le dovute differenze stilistiche, mi pare abbastanza plausibile che il quintetto irlandese possa in un futuro neanche troppo lontano andare a ricoprire il ruolo che fu di Alex Turner e compagnia, vale a dire quello del più grande gruppo rock della loro generazione.
Dopo il pienone di ieri sera al Circolo Magnolia, dopo il trionfo al Main Stage del Primavera Sound (in quell’occasione ho preferito i Tropical Fuck Storm, ma i commenti di chi c’era bastano e avanzano per capire come sia stata una serata da ricordare), a poco meno di sei mesi da quella data al Regio di Parma in cui li vidi per la prima volta, dove misero in mostra enormi potenzialità e alcuni punti critici, i Fontaines DC sembrano già pronti a prendersi il mondo intero. Tanto che non stupirebbe, tempo di pubblicare un altro disco, vederli esibirsi in palazzetti o addirittura negli stadi.
A dispetto di tutto il dibattito, come sempre polarizzato, come sempre poco rispettoso delle opinioni altrui (ma ormai sappiamo com’è fatta questa nostra epoca) questa band ha saputo andare oltre i facili schematismi e le definizioni da manuale: sono la “migliore cover band del mondo” (non ricordo chi lo scrisse ma è un’espressione divenuta virale negli ultimi mesi)? Può anche darsi, ma il punto è che hanno saputo sempre superare i modelli di riferimento, allargando lo spettro di influenze e componendo canzoni dall’altissimo valore qualitativo, senza (e questo è un tema non indifferente, in tutta questa esplosione della nuova ondata Post Punk) minimamente puntare sulla brutalità e sulla violenza ad ogni costo. Si capisce da dove vengono, potremmo parafrasare, ma ad oggi sono perfettamente in grado di trovarsi la strada da percorrere. E ribadisco quel che ho già detto in sede di recensione: se non faranno passi falsi coi prossimi lavori in studio, potrebbero arrivare dove ad oggi non è neppure possibile immaginare.
Il Magnolia, lo dicevamo, è gremito. Una pioggia leggera ma fastidiosa è caduta durante le ore precedenti e, sebbene le previsioni siano ottimiste e nessuno tema l’annullamento, tiriamo un sospiro di sollievo solo quando, a poche decine di minuti dall’inizio, il cielo finalmente si apre.
Il palco è agghindato con rose rampicanti, richiamo neanche troppo velato agli Smiths e in continuità con quanto avevano già fatto a Parma, quando avevano distribuito questi fiori tra il pubblico non appena entrati on stage. Sullo sfondo c’è un logo luminoso del gruppo, che contribuisce al gioco di luci e che, al momento dell’intro (che questa sera, fedeli all’usanza di aprire sulle note di un pezzo della tradizione, è “That Summer Feeling” di Jonathan Richman) assume un po’ ruffianamente i colori della bandiera italiana.
Si comincia con “A Lucid Dream”, suonata con un piglio notevole che mette in chiaro come, concerto dopo concerto, anche i brani di A Hero’s Death stiano cominciando a carburare: a Parma su questo lato del repertorio erano sembrati un po’ in difficoltà, questa volta se la cavano alla grande e sarà una costante di tutta la serata: gli episodi maggiormente atmosferici e contemplativi, dal vivo sono declinati in chiave di maggior potenza e impatto. Ed è fortissima anche la sensazione che siano migliorati nell’interazione: la resa d’insieme è notevole, le occasionali sbavature e imprecisioni non vanno minimamente ad influire su una performance tesa e a tratti debordante.
Loro del resto, pur non essendo musicisti virtuosi (ma quando mai sarebbe necessario?) suonano da paura, a partire da una sezione ritmica implacabile composta dalla batteria di Tom Coll e dal basso di Conor Deegan III. Poi ci sono le chitarre di Carlos O’Connell e Conor Curley, che fanno cose diverse e che riescono nell’impresa di contribuire alla potenza dei singoli brani pur concentrandosi molto sui fraseggi melodici e sulle atmosfere glaciali tipiche della New Wave. In questo senso, siamo lontani dalle esplosioni di fisicità tipiche di un live degli Idles (per fare un nome di quella generazione a cui sono stati spesso erroneamente accostati, soprattutto all’inizio) ma il loro concerto non è meno terremotante a livello di impatto.
Grian Chatten è poi un capitolo a parte: tralasciando i continui paragoni a Mark E. Smith e a Ian Curtis, fastidiosi per il diretto interessato quanto innegabilmente veritieri, almeno in parte, è indubbio che il cantante sia un frontman vero e che abbia la personalità e la caratura artistica necessarie per divenire una rockstar con tutti i crismi, come erano quelle dei decenni passati. Se ne stanno accorgendo un po’ tutti, sia negli ambienti musicali (si veda l’apparizione nell’ultimo album di Kae Tempest) sia in quelli dell’informazione (recentemente non ricordo quale quotidiano inglese gli ha dedicato un servizio di due pagine, ripreso in Italia da Internazionale). Sul palco, a ben vedere, non fa niente di che: si muove ossessivamente in cerchio, agita rabbioso le braccia a caricare il pubblico, canta appoggiato all’asta del microfono come a riversare sull’audience tutto il suo malessere esistenziale. Gesti che abbiamo visto tante volte da altre parti ma la sensazione è che se non ci fosse lui sul palco, queste canzoni, pur meravigliose, non farebbero lo stesso effetto. Tutto questo, badate bene, senza che la band possa ridursi a lui perché, come già detto, alla fin fine quel che viene fuori è proprio la loro capacità di coesione.
Scaletta equilibrata, con Skinty Fia eseguito quasi per intero (8 brani su 10), compresa “In ár gCroìthe go deo”, sacrificata nelle ultime date europee e offerta come regalo al pubblico milanese dopo che, poco oltre la metà del set, il gruppo aveva interrotto per permettere le operazioni di soccorso di una ragazza delle prime file che era stata male. Sono apparsi preoccupati, evidentemente il ricordo dei recenti fatti dell’Astro Festival era ancora vivo nella mente, hanno lasciato il palco per qualche minuto e, quando sono ritornati, hanno ricominciato proprio con una splendida versione di questo brano.
In generale tutti gli episodi del nuovo disco hanno goduto di un trattamento di favore, dal singolo smithsiano “Jackie Down The Line”, tirato e coinvolgente, alle atmosfere aperte di “Roman Holiday”, alla scurissima e tormentata title track, fino all’altro singolo “I Love You”, lenta e morbosa, con una parte centrale letteralmente da brividi, tra la batteria che spingeva e Grian Chatten che ha dato il meglio di sé in quanto a interpretazione.
Il resto è stato altrettanto da manuale, con gli immancabili estratti dall’esordio Dogrel, un periodo in cui il quintetto picchiava ancora duro: le varie “Hurricane Laughter”, “Sha Sha Sha”, “Chequeless Reckless”, “Too Real” e “Boys in the Better Land” sono stra collaudate e sono ancora in vetta alle preferenze dei fan, è evidente dai boati dopo le prime note e dal pogo veemente che si scatena tra le prime file ad ogni esecuzione.
Un po’ sacrificato il secondo lavoro, brani come “Televised Mind” e “I Don’t Belong” hanno nonostante tutto arricchito il concerto e si sono confermati tra le cose migliori nel repertorio di questa band.
Unica pecca, e dispiace essere ancora qui a sottolinearlo, è stata la pessima resa sonora: sarà per le imposte limitazioni di decibel, sarà per un impianto non adeguato (negli anni qui ci ho visto di tutto e ho sempre riscontrato questi problemi), ma il dato certo è che un act di questo livello avrebbe meritato decisamente un miglior trattamento.
È stato comunque un gran concerto. Lasciamo da parte le sterili discussioni con cui abbiamo aperto questo report e concentriamoci su ciò che realmente vale: i Fontaines DC sono una certezza, rimane solo da attendere il ritorno discografico dei Murder Capital (non dovrebbe mancare molto) per capire se possiamo davvero considerarli i campioni assoluti di questa nuova scena.