Spiace ricorrere ai luoghi comuni ma davvero, di band come gli Ulver in giro ne esistono poche. Ancora di più dei loro connazionali Motorpsycho (che neanche farlo apposta pubblicano il loro nuovo album lo stesso giorno), che pur non abbassando mai l’asticella della qualità, sono da tempo fossilizzati sugli stessi codici espressivi, i lupi di Kristoffer Rygg hanno mostrato negli anni un desiderio di ricerca ed un’insofferenza per l’immobilismo che hanno concretizzato in un cammino al limite della schizofrenia. Non a caso, con un po’ di ritardo sul venticinquesimo anniversario della loro nascita, viene pubblicato, in concomitanza col nuovo disco, “Wolves Evolve”, un libro di oltre trecento pagine che tra interviste esclusive e foto celebrative promette di documentare esaustivamente un viaggio che a partire dal Black Metal e dal Folk dei primi lavori, è approdato al decadente Synth Pop di oggi, passando attraverso l’Ambient, il Trip Hop, la Techno, la musica sinfonica e numerose altre suggestioni.
“Flowers of Evil” arriva a tre anni dall’acclamato “The Assassination of Julius Cesar” e, almeno apparentemente, ne ripercorre le coordinate stilistiche. Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che i norvegesi si siano finalmente assestati su una loro personale comfort zone. In primo luogo perché il loro tredicesimo lavoro in studio (senza contare gli Ep e le colonne sonore) arriva a poco più di dodici mesi da “Drone Activity”, che sarà pure passato in sordina ma che rappresentava una totale contraddizione con quanto fatto in precedenza, improntato com’era sul rumorismo e sulla Drone Music più spinta, sorta di versione aggiornata di un certo “Metal Machine Music” di qualche decennio fa. Inoltre, ed è il punto principale, “Flowers of Evil” non è così assimilabile al suo predecessore, come invece sottolineato da gran parte della critica.
Fatta salva la matrice ottantiana composta da Synth, Upbeat e melodie dal sapore Pop, queste otto canzoni possiedono in realtà un mood più cupo, un andamento funereo ed un vestito più scarno, in certi punti quasi minimale. Da questo punto di vista, più che un’esplorazione inedita di nuovi territori, pare la declinazione Pop di tutto ciò che gli Ulver sono stati nel corso degli anni, non a caso ci sono sparsi qua e là, accuratamente dissimulati, echi di capolavori come “Perdition City” e “Blood Inside”.
Complesse come sempre le tematiche trattate e numerosi i rimandi testuali: a partire dal titolo, che richiama la più famosa opera di Baudelaire ma che contiene in realtà uno svolgimento che ha più a che fare col fuoco e con la fine del mondo. Si prenda la copertina, che è un fotogramma della Giovanna D’Arco di Victor Fleming, interpretata da Ingrid Bergman; e ancora “One Last Dance”, monumentale traccia d’apertura dall’andamento solenne e magniloquente, meravigliosa prova vocale di Rygg e lavoro superbo dell’amico Christian Fennesz alla chitarra e all’elettronica; quel ritornello che scandisce “One last dance in this burning church” sembra quasi evocare l’epoca (a cui peraltro loro sono sempre stati estranei) della prima giovinezza della band, quando l’Inner Circle bruciava le chiese, alcuni membri si ammazzavano tra loro e per molti il Black Metal scandinavo era soprattutto quella roba lì.
E in effetti sono molte le immagini che collegano la fine di tutto con l’inizio del gruppo, in una sorta di autoironica ma allo stesso tempo ieratica celebrazione: si va da “Hour of the Wolf” (che cita l’omonima pellicola di Ingmar Bergman e che in una strofa dice: “We are wolves, under the moon, this is our song, we have loved and we have lost, we are ready to go” ) ad “Apocalypse 93”, che parla del massacro di Waco, in Texas, messo quasi perversamente in relazione all’anno di nascita del gruppo; ma c’è anche la conclusiva “A Thousand Cuts”, che svolge la stretta correlazione tra sesso e morte a loro famigliare e più volte esplorata nei precedenti lavori.
Musicalmente siamo sempre a livelli altissimi, forse addirittura più alti di prima. E se, come loro hanno sempre detto, fare un disco Pop è molto più difficile che realizzarne uno sperimentale, allora si sono comportati decisamente bene: a partire dalla splendida apertura (uno dei pezzi migliori della loro carriera?) passando per l’andamento sinuoso di “Russian Doll”, la potenza e le melodie catchy di “Machine Gun and Peacock Feathers”, la drammaticità funerea di “Hour of the Wolf”, lo strepitoso ritornello di “Apocalypse 93”, le citazioni dei Depeche Mode in “Little Boy” e il classicismo in bianco e nero di “A Thousand Cuts”, non c’è un solo riempitivo e nessun calo di tensione.
Un disco che rimarrà scolpito nella pietra, al di là di ogni retorica, il modo migliore per dire non tanto che si è ancora vivi dopo quasi trent’anni, ma che si è divenuti una delle realtà più interessanti della musica contemporanea.