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REVIEWSLE RECENSIONI
01/02/2019
White Lies
Five
La volontà di non discostarsi dalla direzione intrapresa, il voler piuttosto cercare di esplorare a fondo territori già battuti, rende questo un lavoro privo di sorprese e nel complesso meno memorabile che in passato, nonostante Harry Mc Veigh e compagni non abbiano perso per strada la bontà della loro scrittura.

I White Lies si sono sempre divertiti a rendere tributi al passato: colpirono l’immaginario collettivo con un debutto, “To Lose My Life” che sembrava voler mostrare cosa sarebbe successo ai Joy Division se fossero divenuti una band da stadio. Poi si sono fatti sempre più prendere la mano dalle tastiere e dai ritornelli facili e hanno finito per immergersi, più o meno definitivamente, negli anni ’80 dell’Aor e del Pomp Rock. Lo avevano preannunciato con “Big TV”, lo hanno dichiarato apertamente col precedente “Friends”, che era zeppo di canzoni dalla carica melodica irresistibile, profondamente immerso in quelle sonorità che, saranno pure costruite, ma quando funzionano lo fanno per davvero e non te ne stacchi più.

Adesso è arrivato “Five”, che oltre ad essere il quinto disco in studio ne segna anche i dieci anni di carriera (dieci anni, capite? Lasciamo da parte ogni retorica sul tempo che passa, per carità). Nascono forse da questo desiderio celebrativo il titolo scontato e la copertina orrenda (non che la precedente fosse meglio, però): va loro bene che oggi nessuno compra più i dischi e quindi nessuno si fa influenzare dalle illustrazioni.

Registrato in parte a Los Angeles, con la collaborazione di vecchie conoscenze come Ed Buller (che aveva già prodotto i primi due dischi del trio britannico) e Alan Moulder (che qui si è occupato del mixing) e nomi di primissimo piano come James Brown (Foo Fighters, Arctic Monkeys) e Flood, “Five” è senza dubbio un disco ambizioso sin dal primo brano, quella “Time to Give” che è stato anche il primo singolo ad essere anticipato. Una scelta coraggiosa, quella di introdurre tutto con un pezzo così ma anche, a pensarci bene, intelligente: quei sette minuti e mezzo, zeppi di cavalcate Pomp ed intermezzi strumentali neoclassici, dalla struttura molto meno lineare rispetto a quanto ci avessero abituato (che una canzone dei White Lies articolata nella struttura è già una notizia a prescindere) possono disorientare al primo ascolto ma allo stesso tempo, avendo avuto tre mesi buoni per abituarci, hanno fornito una valida introduzione al resto del lavoro.

Lavoro che, è giusto dirlo apertamente, non intende discostarsi più di tanto da quello che si era già sentito su “Friends”. Tanta elettronica, tante tastiere, suoni pieni e avvolgenti, melodie catchy e ritmi ballabili. La differenza, semmai, è che i brani si sono fatti mediamente più complessi e ricercati, le atmosfere leggermente più profonde, meno ruffiane. Ma le coordinate, grosso modo, sono quelle lì.

La volontà di non discostarsi dalla direzione intrapresa, il voler piuttosto cercare di esplorare a fondo territori già battuti, rende questo un lavoro privo di sorprese e nel complesso meno memorabile che in passato, nonostante Harry Mc Veigh e compagni non abbiano perso per strada la bontà della loro scrittura.

Di episodi buoni ce ne sono: a cominciare dai singoli “Finish Line” e “Tokyo”, il primo giocato su una bella progressione melodica che parte dalla chitarra acustica, il secondo su un ritornello ultra-ruffiano, che entra in testa al primo ascolto e non se ne va più.

“Kick Me” è una ballata che rimanda ai Depeche Mode periodo “Music for The Masses” e che sfocia in un ritornello forse un po’ troppo languido ma di sicura presa. Poi ci sono brani come “Jo” e “Denial” ma anche “Believe It” (quest’ultima già la conoscevamo), potenti ed incalzanti, anch’essi trascinanti nelle loro melodie dal chiaro impatto radiofonico.

La conclusiva “Fire and Wings”, che gioca su atmosfere più epiche e a tratti intimiste, vorrebbe forse rappresentare un finale ad effetto ed un tocco di sofisticatezza in più ma non riesce nell’intento, nel complesso troppo scarica e poco amalgamata con le altre.

Per chi cerca emozioni facili e ha voglia di cantare a squarciagola mentre guida, questo potrebbe essere il disco ideale. Al di là di questo, pur avendoli ritrovati in discreta forma e con un lotto di canzoni indubbiamente piacevole, è difficile che i White Lies, nel 2019, possano fare qualcosa di più che recitare la parte dei meri intrattenitori. Il loro principale problema, forse, è che non si capisce bene che cosa vogliono essere: troppo scuri e impegnativi per chi desidera solamente un po’ di frivolezza Pop, troppo ammiccanti e superficiali per chi è rimasto orfano della New Wave ed è ancora lì a ripetersi quanto fosse bella “Farewell to the Fairground”. Perché temo che ai primi basteranno i 1975 o quelle cose lì, mentre i secondi si butteranno a pesce sul nuovo Twilight Sad (che non fa gridare al miracolo ma che almeno è esattamente quello che ci si aspettava che fosse).

A Harry Mc Veigh, Charles Cave e Jack Lawrence-Brown possiamo solo chiedere di continuare a fare ottimi live show e di scrivere canzoni buone come queste. Non sarà molto ma credo che il treno, quello vero, lo abbiano perso per sempre.