C'era molta attesa per il nuovo film di Damien Chazelle dopo il buon esito del brillante La la land, purtroppo con First Man il giovane regista allestisce un classico biopic di buona fattura ma che emoziona poco, non dona particolari sussulti e che può coinvolgere appieno giusto lo spettatore appassionato della figura di Neil Armstrong e della corsa alla Luna, evento da leggere più come ricerca di una supremazia d'immagine nella Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica che non come un'impresa con una reale utilità se non quella di alimentare sogni, ossessioni e desideri degli uomini coinvolti nel progetto. Certo, l'impatto culturale dell'allunaggio è stato molto importante, in fondo siamo ancora qui a parlarne, il versante più interessante del film è però proprio quello che si sofferma sui costi della corsa allo spazio, espressi in milioni di dollari (viene ripresa anche un'intervista allo scrittore Kurt Vonnegut a riguardo, e come possiamo contraddire Kurt Vonnegut?) ma soprattutto in vite umane perse. Ne è valsa davvero la pena?
Si sceglie un taglio intimista e poco spettacolare per narrare il percorso di Armstrong (Ryan Gosling) verso la Luna, un percorso che inizia ben prima delle missioni Apollo e prima che Neil Armstrong entrasse a far parte dello staff della NASA nel 1962. Si passa dai collaudi dell'aerorazzo X-15 e gli impatti con l'atmosfera alle missioni Gemini, tappe utili per creare l'esperienza necessaria per la missione spaziale più importante, e ancora le esercitazioni di aggancio, a terra come in aria, le simulazioni di atterraggio sulla Luna tenute nel deserto americano, fino ad arrivare finalmente a quel 20 luglio 1969. Alle spalle una serie di funerali, amici morti in servizio e il lutto perpetuo per la perdita della piccola figlia malata di tumore, un'assenza che accompagnerà il pilota per sempre, fino al momento di lasciare quell'impronta sul terreno friabile del nostro satellite. Chazelle evita di usare troppe sequenze spettacolari per raccontarci le imprese in assenza di gravità, non mancano le immagini ad effetto, soprattutto quelle del suolo lunare, ma anche queste sequenze, grazie a un sapiente uso delle musiche di fondo, rientrano in un linguaggio riflessivo e intimo, lontano dallo spettacolo hollywoodiano; l'unica concessione è quella alla tensione, quella dei momenti difficili che si creano negli abitacoli delle navicelle, resi da movimenti di macchina che ricreano in maniera molto efficace le condizioni con le quali si trovavano ad avere a che fare i piloti durante le missioni.
Armstrong viene dipinto come un personaggio schivo, introspettivo, la sua dedizione alla causa è naturale, mai esagerata, non sembra essere nemmeno troppo cercata e perseguita, è difficile intuire le motivazioni dell'uomo verso l'impresa, la dedizione a un mestiere che sta mettendo in crisi il suo matrimonio con la moglie Janet (Claire Foy) che, proprio come lo spettatore, non riesce a capire fino in fondo cosa c'è dentro l'uomo che ha sposato, e alla fine l'unica risposta sembra essere il lutto per quella piccola bambina, ma come si ricollega questo al rischio di non vedere più la moglie e i suoi due figli maschi ancora in vita? Ryan Gosling recita di conseguenza, introspettivo, pochi sussulti, mette in scena un uomo compassato, estraneo agli entusiasmi, funzionale e quindi perfetto per la NASA. Nell'economia della vicenda Collins (Lukas Haas) quasi non esiste, di Aldrin (Corey Stall) non ne esce un ritratto proprio entusiasmante, per il resto tante sequenze domestiche, quotidiane, di addestramento, a tratteggiare un uomo molto lontano dalla figura dell'eroe.