Tutto questo rimane ma c’è appunto il rischio che non venga declinato al meglio, che non trovi uno sbocco organico. Dopo i primi due lavori acerbi, di impronta major e decisamente fuori fuoco dal punto di vista musicale, il successivo “2640” aveva fatto ben sperare e nonostante le polemiche per una “svolta Indie” giudicata in qualche modo artefatta, si era dimostrato di ottimo livello qualitativo, e anche e soprattutto coerente sul lato delle intenzioni.
Due anni dopo, questo “Feat. Stato di natura”, possibile tentativo di tenere insieme tutti gli input e le idee che le si annidavano nella testa, rischia di incasinare nuovamente le cose.
Un progetto che ha già in partenza una formula particolare, composto com'è da undici brani, ciascuno dei quali presenta un featuring con un diverso artista (in un paio di casi i nomi coinvolti sono addirittura due) e vede l'avvicendarsi, sia nel lavoro di scrittura che di produzione, una lista lunghissima di nomi. Il risultato, piuttosto prevedibilmente, è che l’insieme manca di omogeneità, per cui anche quel filo conduttore che avrebbe potuto esserci (la Michielin stessa, che ha partecipato alla stesura di tutti i brani tranne uno) viene vanificato dal fatto che ogni nome coinvolto ha marcato il territorio imponendo in modo forse eccessivo il proprio marchio di fabbrica. E trattandosi di artisti dal background differente, provenienti dagli ambienti musicali più disparati, capirete come la sensazione di disorientamento non sia di poco conto.
Detto questo, fughiamo subito ogni equivoco: si tratta di un gran disco, riuscito in (quasi) tutte le sue componenti, a conferma che se ad un progetto prende parte gente brava, le cose bene o male funzionano.
E capiamo anche che questa estrema varietà sia stata voluta: si tratta infatti di un lavoro incentrato sul tema dell'incontro, dove il featuring non è concepito come una semplice ospitata bensì come un vero e proprio modo di aprirsi all'altro, di arricchirsi mediante l'esplorazione della sua identità. E probabilmente, ad osservare i tre diversi live con cui è stato introdotto (due dei quali realizzati in streaming, data la situazione di emergenza che stiamo vivendo) non si doveva che fare così, per tenere dentro tutto: dalle suggestioni Urban, alle contaminazioni orchestrali, fino all'apertura agli ensemble multietnici dei Selton e dell'Orchestra di Piazza Vittorio, tutto dice di un tentativo di accostare le varie anime di Francesca, di farle interagire tra loro in modo tale da offrire la fotografia più veritiera del momento attuale del suo percorso.
Partendo dalle cose che funzionano, c’è il primo singolo “Cheyenne”, che conosciamo già da novembre ma che adesso, con tutto il resto della tracklist in campo, ci pare possa essere inquadrato in maniera più precisa: l'incontro tra l'ottima produzione di Charlie Charles (non c’è davvero un beat fuori posto e l’aggiunta via via dei vari elementi sulla scia del pezzo è condotta in modo magistrale) e le linee vocali efficacissime di Francesca, aiutata da Mahmood in fase di scrittura, per un brano che racconta un amore finito, denso di suggestioni adolescenziali; ponte ideale con “2640” e, allo stesso tempo, possibile pista di un cammino da seguire in futuro, perché quando tocca queste corde appare decisamente più disinvolta.
Ma funziona pure l'esplorazione del territorio Trap di “Gange”, dove l’interazione con Shiva offre ottimi momenti, complice anche lo splendido lavoro di Davide Maddalena alla consolle. Produzione d'eccezione per “Monolocale”, affidata a Frenetik & Orang3, un pezzo denso di contaminazioni RnB, un gran bel brano di Pop autorevole, con un sempre ottimo Fabri Fibra, ormai vecchia conoscenza (i due si erano incrociati sul disco solista di Carl Brave, guarda caso anche lui presente nell'elenco degli ospiti).
Stupisce anche la collaborazione coi Coma_Cose, che si confermano come uno dei nomi più interessanti dell’ultima generazione, ad un anno esatto dall’uscita di “Hype Aura”: i due impreziosiscono la seconda parte di “Riserva naturale” con la loro scrittura fitta di suggestioni lessicali e di efficaci melodie (qui tra l'altro Francesca Mesiano offre una prova vocale sorprendente ed inusuale per i suoi canoni). Anche qui siamo nell'Urban Pop più canonico e funziona tutto benissimo, al punto che ancora una volta vien da dire che se tutto il disco fosse stato così, staremmo di certo gridando al capolavoro.
Un passo sotto è “invece Acqua e Sapone”, dove Takagi & Ketra sono ormai sempre più uguali a loro stessi e non riescono a replicare le killer track del passato; è un buon pezzo ma non decolla mai del tutto, forse anche per colpa di un Fred de Palma che non lascia il segno.
Di diverso tenore “Sposerò un albero”, un Reggae spiazzante, affidato ancora una volta alla sapiente regia di Frenetik & Orang3; andamento sinuoso e atmosfere vagamente scure, un brano che parla di libertà, di spazi aperti ma che lo fa in modo stranamente concentrato, senza mai assumere un respiro liberatorio. E qui c’è Gemitaiz, altro rapper della vecchia scuola, che se la cava benissimo pur non riuscendo ad incidere nella traccia quanto invece ha fatto Shiva nella sua.
Prima di passare alle cose che proprio non vanno, diciamo quelli che, almeno per il sottoscritto, sono i due episodi migliori: “Star Trek”, dove Francesca duetta con Carl Brave, un pezzo che ripropone tali e quali quelle atmosfere gigionesche e vagamente malinconiche dell'artista romano, che paga come sempre un discreto tributo a Califano ed offre un divertente ritratto di una coppia in crisi alle prese con una convivenza forzata.
E poi “Leoni”, scritta e prodotta da Giorgio Poi, che non a caso sfodera al meglio tutti gli stilemi del suo songwriting e riesce nuovamente a fare centro. Qui, per una volta, Francesca si mette a guardare, limitandosi ad aggiungere la sua voce ad un brano che profuma d’estate ma che allo stesso tempo è ammantato di nostalgia, e dove le armonie vocali si incastrano meravigliosamente; pezzo migliore del disco ed ennesima consacrazione per lui. Come se non bastasse la ascolteremo in “Summertime”, una serie Tv tutta italiana, che vedremo su Netflix dal 29 aprile.
E veniamo alle dolenti note. Perché sì, finora abbiamo detto solo bene ma su questo “Stato di natura” ci sono anche cose che si muovono tra l'insignificante e l'orrido (perdonatemi ma ogni tanto ci vuole). Partiamo dalla title track, che è anche il pezzo che apre l'album, nonché ultimo singolo estratto. Se occorreva un'ulteriore certificazione dell'enorme bufala che sono i Måneskin, eccola qua: i beniamini di X Factor fanno quello che hanno sempre fatto, cioè fingono di suonare Rock, inserendo chitarre distorte a casaccio (se c'è un ingrediente che proprio non c'azzecca nulla con il pur vario lavoro di produzione di queste tracce, sono proprio le chitarre usate così), fornendo una base artificialmente heavy ad un brano anonimo, dove uno spoken word poco convincente viene messo al servizio di un testo denso di luoghi comuni e facili slogan di ispirazione femminista. Attenzione che il punto non è la tesi di fondo, che potrebbe anche essere condivisibile, ma il modo con cui è stata affrontata: non me ne voglia l’autrice ma in altri momenti ha dimostrato maggiore intelligenza e senso critico. Rischioso comunque aprire così: non ci fossero stati i singoli precedenti, sarebbe stata un'impresa ardua andare avanti con le altre tracce.
Sono dolori anche per quanto riguarda “Yo no tengo nada”, incentrata su sonorità latinoamericane, con una Elisa molto più che anonima e una produzione di Dardust che più banale di così si muore. Sconcertante, se si pensa all'ottimo lavoro svolto da lui sul disco precedente. Da ultimo, ci tocca parlare de “La vie ensemble”, che vede nel songwriting una inedita collaborazione con Francesco Zampaglione ed il featuring di Max Gazzé; al di là del non aver capito perché l’abbiano cantata in francese, si rivela essere all'insegna del vuoto cosmico, lo spettro di quella che avrebbe potuto essere la carriera della Michielin se avesse continuato sui binari dei primi due dischi.
Alla fine, comunque, tre pezzi brutti su undici non è poi un bilancio catastrofico, soprattutto perché, come già detto, le cose buone sono buone davvero. Rimane lo stesso una vaga sensazione da occasione sprecata: troppi produttori, troppi autori (a fianco di quelli già nominati, hanno dato un contributo consistente anche Daniele Mungai e Daniele Dezi), la volontà di muoversi in più direzioni e di celebrare le diversità che finisce inevitabilmente per tramutarsi in un'accozzaglia disordinata di situazioni.
Il talento però non manca. Non è il disco della consacrazione ma è un ottimo disco, facciamo che anche stavolta va bene così.