C’erano già delle avvisaglie di cosa fosse in grado di combinare Bartees Leon Cox Jr nelle cinque canzoni (in seguito ne sono arrivate altre due) dell’EP Say Goodbye to Pretty Boy, che rileggeva alla sua maniera il repertorio dei The National, all’epoca la sua band preferita. Col senno di poi, si sarebbe potuto capire che qualcosa di molto interessante bolliva in pentola: la capacità di isolare il nucleo melodico della proposta di Matt Berninger e soci, scorporandolo dalla componente Roots e Americana e contaminandolo con massicce dosi di quel RNB da cameretta reso celebre da Frank Ocean nel suo Channel Orange.
I passi successivi sono in linea con tutto questo, portati avanti attraverso un percorso niente affatto lineare, cominciato da un’apparizione dei TV On The Radio da David Letterman, momento epifanico che ha innescato la sua passione per la musica. Da qui il College in Oklahoma e il successivo trasferimento a Washington, dove fa una vita quasi da strada, dormendo in macchina e appoggiandosi a degli amici che frequentano l’università, facendo finta lui stesso di essere uno studente e provando a procurarsi degli ingaggi serali in qualche locale.
La nascita artistica vera e propria avviene però a Crown Heights, Brooklyn, dove frequenta la casa di Taja Cheek (L’Rain), artista visiva i cui party cultural-musicali hanno animato la scena newyorchese come una sorta di versione aggiornata dei salotti europei del ‘700. È stato qui, nel confronto continuo e stimolante con altri artisti, sia giovani sia affermati, che il giovane Bartees ha costruito la propria identità musicale, mettendola al servizio delle proprie composizioni e procurandosi un importante deal con la 4AD.
Live Forever, uscito a ottobre 2020 e ripubblicato l’anno successivo in versione Deluxe, vive di una perfetta fusione tra Indie Rock e Black Music, un accostamento talmente inusuale da far esclamare il suo manager Jamie Coletta che “è stato come ascoltare il futuro”.
Farm to Table ripresenta la stessa ricetta, sebbene in versione più matura e con la scomparsa di quell’elemento Hip Hop che animava alcune delle composizioni del lavoro precedente e rappresenta una possibile esemplificazione in chiave musicale della cosiddetta “Generazione Z”: fluidità nella gestione dei contenuti, ibridazione di generi, flusso di coscienza nella scrittura. L’impressione è che in tanti dei lavori usciti negli ultimi anni si possano ritrovare queste caratteristiche, nella misura in cui sono frutto di un background interiorizzato spesso senza una particolare consapevolezza o sistematicità.
Da questo punto di vista, Farm to Table è composto soprattutto da canzoni chitarra e voce (andando a scavare nel profondo alla fin fine il succo è quello), fatte salve poi le differenti soluzioni di arrangiamento. L’iniziale “Heavy Heart” mette in mostra una crescita notevole nel processo di scrittura, ritornello splendido e seconda strofa con cadenze Urban, di per sé anche una sintesi ideale della proposta complessiva, soprattutto per l’impronta Lo Fi della produzione. In “Mulholland Drive”, ispirato all’incontro col folle mondo di Los Angeles, compare l’autotune e c’è un upbeat molto efficace, che sfocia in un altro ritornello efficacissimo.
Molto bella anche “Cosigns”, anch’essa fa uso di autotune, c’è un beat che sale, un ritmo trascinante e un testo che gioca sull’essere “arrivato”, sulla frequentazione di musicisti più in voga del circuito indipendente, da Phoebe Bridgers a Lucy Dacus, passando ovviamente per Justin Vernon (“I’m with Justin, we already friends”). Bon Iver è anche un’influenza importante nell’impronta generale della scrittura e viene fuori soprattutto in “Wretched”, dove ad una strofa in pieno stile Folktronica si contrappone un ritornello upbeat e fortemente ballabile. “Black Gold”, che lui stesso ha identificato come la sua personale versione della parabola del figliol prodigo, potrebbe tranquillamente essere uscita da “22, A Million”: vocoder e chitarra arpeggiata, atmosfera struggente.
È un disco che pur muovendosi da una base contemporanea, non rinuncia a guardare alla tradizione americana, evidente in “Hennessy”, brano acustico e molto raccolto, suono grezzo, come fosse registrata in presa diretta, intrecci vocali spontanei, come da cantata in salotto. Poi “Tours”, chitarra e voce, un brano che rievoca l’infanzia di Bartees, i cui genitori (il padre un ingegnere impegnato in zone di guerra, la madre una cantante d’opera) erano spesso in giro per il mondo e lui a casa a confrontarsi col senso di questa mancanza. Ha raccontato di non avergliela ancora fatta sentire, perché è convinto che ne soffrirebbero, anche se lui precisa di aver capito le loro ragioni e di non serbare rancore.
Infine “Hold the Line”, una slide guitar in evidenza e un certo richiamo alle cose più Country di Taylor Swift. Personalmente è la mia preferita, il testo è particolarmente drammatico (occorre far notare come Bartees Cox sia anche un ottimo paroliere, cosa per niente scontata oggigiorno), ispirato ad un’intervista della figlia di George Floyd.
Farm to Table è l’album della maturità per Bartees Strange, quello da cui si muoverà per costruire una carriera solida e convincente. Non c’è niente di originale, badate bene, ma c’è un’intelligenza nell’utilizzare le influenze e una passione nel suonare che non lascia indifferenti e che fa capire che abbiamo davanti un artista fuori dal comune. In una recente intervista ha raccontato il potere quasi religioso della propria musica, il fatto che quando suona avverte che c’è qualcosa di più grande della semplice somma dei fattori in gioco, una sensazione di grandezza che sperimenta anche quando suona dal vivo, nel rapporto col pubblico. Questo, assieme a quella fame di compimento che ha cantato in “Cosigns” (“How to be full, it’s the hardest to know/I keep consuming, I can’t give it up/Hungry as ever, it’s never enough, it’s never enough, it’s never enough”) è un ulteriore segno di grandezza che non può essere ignorato.