Ascoltare Fanfare è come aggirarsi per le bancarelle di un mercatino delle pulci. Puoi attraversarlo rapidamente, gettando uno sguardo superficiale a destra e a manca, e ciò che ti resterà in mente sarà solo l'impressione di aver attraversato un luogo vitale e chiassoso, nel quale voci, colori e oggetti si sovrappongo, indistinguibili, in una festante confusione.
Se, però, ti prendi del tempo, ti aggiri fra gli oggetti in vendita, li tocchi, ne soppesi l'intrinseco valore o ne indaghi la bellezza esteriore, allora finisci per scoprire verità interessanti e preziose, che a uno sguardo disattento sarebbero sfuggite. Devi spulciare, soffiare via la polvere, fare attenzione ai particolari, un po’ come se ti soffermarsi a passare le dita sulle finiture di una rilegatura che da pregio al libro che hai in mano. Un particolare, anche piccolo, che alla fine risulta decisivo ed esalta la bellezza del tutto.
Jonathan Wilson, chitarrista, cantante, pianista, polistrumentista, tecnico del suono e produttore (Dawes), ci ha aperto le porte del suo personale mercatino folk rock e ci ha invitato a entrare. Già nel 2011, con il precedente Gentle Spirit, si era presentato al mondo come un esperto collezionista dei suoni che negli anni '70 andavano per la maggiore dalle parti di Laurel Canyon. Eppure, nonostante lo sguardo rivolto a quell'epoca leggendaria, l'approccio del musicista californiano non sembrava quello di un passatista, di uno cioè che conserva la tradizione perchè incapace di vivere con piena soddisfazione il presente.
Le quindici canzoni di Gentle Spirit infatti non riesumavano un suono, semmai lo sviluppavano nuovamente, indirizzandolo verso strade non ancora (troppo) battute. E fu un po’ come riprendere un cammino interrotto e puntare ancora verso l'orizzonte, dopo essersi rifocillati e aver riempito lo zaino di provviste. Due anni dopo da quel disco, Fanfare porta a compimento la prima parte di un percorso artistico che approda in un mondo per certi versi inesplorato, come se Wilson, con un misterioso esperimento alchemico, avesse rivitalizzato il meglio di una generazione arricchendolo però di nuove intuizioni.
Da quegli anni memorabili richiama in carne e ossa Jackson Browne, David Crosby e Graham Nash; si fa pervadere dallo "spirito gentile" di Joni Mitchell che ispira angeliche soluzioni melodiche dalle sfumature jazzy (l'iniziale title track); chiede una mano a Mike Campbell e Benmont Tench (membri degli Heartbreakers di Tom Petty), due musicisti che l'americana la masticano da tempo e anche bene; e per finire si avvale della collaborazione di Pat Sansone, che coi suoi Wilco ci ha insegnato che le parole "alternative" e "pop" possono vivere in felice condominio con la roots music.
Il resto invece è tutta farina del suo sacco di compositore eccellente. Ed è una farina macinata dopo aver consumato di ascolti Pacific Ocean Blue, capolavoro inquieto e visionario di un altro Wilson, che faceva di nome Dennis e che fece la Storia insieme ai Beach Boys del fratello Brian. Il nuovo rock californiano di Jonathan è tutto questo, e altro ancora: c'è Dylan, infatti, ci sono i Byrds, e ad ascoltare bene, Fanfare pesca anche dai suoni provenienti dall'altra sponda dell'oceano, visto che qui e là echeggiano i Pink Floyd e i Beatles. Wilson amalgama il tutto, stratifica le canzoni sovrapponendo le partiture, toglie la polvere, spazza via la nostalgia e il citazionismo, porta una manciata di raggi di sole e si diverte a giocare con la sua visione (moderna) di psichedelia.
Complesso senza essere cerebrale, sfaccettato senza diventare mai tortuoso, Fanfare è un disco che necessita di ripetuti ascolti e di una predisposizione al volo pindarico, a lasciarsi condurre verso i quattro punti cardinali di un mappamondo musicale le cui coordinate di navigazione appaiono chiare solo al momento dell'approdo. Come nel mercatino di cui si diceva all'inizio, serve prendersi il tempo giusto, ascoltare e aspettare. Solo così, fra le bancarelle di Wilson troverete alcune delle cose più preziose uscita nell’ormai lontano 2013.