False Alarm è il quarto album di Two Door Cinema Club, a tre anni dal precedente.
È un lavoro significativo perché divide il corredo genetico della band, scavando in territori inesplorati in un coraggioso tentativo di rinnovazione.
Quale sia il risultato è un interrogativo legittimo.
L’esordio “Tourist History” era stato una sorpresa ad opera di tre giovanissimi nordirlandesi, che partivano da eredità wave di certi anni ‘80 ma rielaborate attraverso chitarre frenetiche e vivaci.
Lo scarto con un certo indie inglese del decennio precedente segnava una significativa freschezza al limite del goliardico, mischiato a contemporanee necessità sintetiche.
Tuttavia il decennio che ha ospitato anche i successivi due album, non li ha visti superare un certo status.
Sì, perché dopo un buon secondo album, il terzo “Gameshow” era stato un poco riuscito ibrido tra il recente passato ed una svolta glam.
L’emergere di altre band e il potenziale commerciale dell'indie dalla perfida Albione degli anni Zero che è andato lentamente ad esaurirsi, hanno portato i Two Door Cinema Club qui: non vincitori ma nemmeno sconfitti.
“False Alarm” è un album che comincia richiamando sonorità familiari, prima di catapultare l’ascoltatore in un universo completamente estraneo.
Difficile, in principio, capire se sia un album che gira senza controllo in uno sforzo disperato di rompere l’ordinario oppure se sia la fase conclusiva di un lavoro di reinvenzione strutturata e valida, l’epilogo di un cambiamento graduale iniziato appunto con il disco precedente.
Con gli ascolti si tende a preferire la seconda conclusione e allora anche il titolo “False Alarm” può essere letto come un riferimento a questo processo: “ecco siamo qui, passata la transizione! Tutto ok, era un falso allarme”.
Sono fondamentalmente sparite le chitarre che li caratterizzavano al debutto e si ingrossano le fila del sintetico abbracciato nel successivo “Beacon”.
Le intenzioni sono chiare, addirittura sfrontate in “Once” che irrompe con una melodia efficace e piena di synth, assolutamente calata nella contemporaneità dance pop.
Attitudine che prosegue con innesti funk come in “Talk”, influenze smaccatamente 80’s in “Satisfaction Guaranteed” e in uno dei brani più riusciti, “So Many People”, che nasce su dialoghi chitarristici che omaggiano gli Chic per poi aprirsi con un refrain indie-pop che non ammette dubbi.
Avvicinandosi a metà del disco si trovano, purtroppo, i momenti in cui fanno capolino certi generi coevi a questi tempi senza mantenere un certo standard qualitativo.
Nello specifico “Think” in cui una voce filtrata dal vocoder è protagonista di una ballata chillwave e “Nice To See You” con guest rap di Open Mike Eagle.
Si torna in carreggiata prima con il credibile Dream Pop di “Break” e poi con la madchesteriana “Dirty Air”, in cui rientrano perfettamente le chitarre degli esordi.
In orbita Teleman, ma più pop e meno raffinata, “Satellite” ha il merito di essere fresca, scivolando su ritmiche sintetiche ma non algide.
La conclusione di questa eterogeneità è un’epica ed assieme ironica “Already Gone” caratterizzata da un interpretazione inedita in falsetto estremo che a me ha ricordato “Debra” di Beck.
Insomma, scrivevo all’inizio di questa recensione, come Two Doors Cinema Club non rinuncino a voler proseguire un percorso che li ha prima visti come “Next Big Thing” e poi mimetizzarsi in un contesto in cui le coordinate e loro stessi erano in mezzo tra il cambiare e non farlo abbastanza.
Cosa non banale e non scontata, questo album cerca una rigenerazione del loro suono, ed è naturalmente destinato a dividere le opinioni.
Non finirà tra i miei dischi dell’anno, ma un plauso al coraggio è doveroso.