Silurato Hartley (“Voleva fare assoli di tastiere,” dirà Smith in un’intervista, liquidando simpaticamente la questione), i Cure tornano a essere un trio. I primi, rudimentali abbozzi di quello che diventerà poi Faith, il terzo album, vengono messi su nastro nell’ottobre del 1980 ai Morgan Studios. Smith non è però soddisfatto dei primi demo. Ha in mente (parole sue) un suono “funereo”, in linea col suo stato d’animo. La composizione dei brani prosegue a rilento, soprattutto a causa del perfezionismo del leader, che sembra non riuscire più a trasmettere nitidamente le sue idee a Tolhurst e Gallup; vengono registrati altri demo, abbozzi di brani, sequenze armoniche, ma l’album fatica a prendere forma.
Finalmente, il 14 aprile del 1981, Faith compare sugli scaffali dei negozi. La copertina, opera di Porl Thompson, è una fotografia della Bolton Priory, monastero fondato nel 1154 dall’Ordine Agostiniano, virata grigio plumbeo fino a renderla irriconoscibile.
La romantica melancolia di Seventeen Seconds si è trasmutata in gelida disperazione, perseguendo una continuità narrativa di cupo smarrimento (la discesa negli abissi del male di vivere) e cercando risposte all’Assurdo (Sartre, Camus e Kafka sono gli spiriti che aleggiano da sempre) che sta alla base dell’esistenza (la parola “faith”, in inglese, ha il significato tanto di fede quanto di fiducia, ed è su queste sfumature di significato che si avvita a spirale il concept dell’album). C’è un deciso spostamento di enfasi verso le tastiere: il sound è algido, ovattato, sempre più claustrofobico (“rimbomba come l’eco all’interno di una cattedrale”, si dirà). Le tracce rallentano, si dilatano, descrivono ora paesaggi sonori lunghi e solenni, ora danze macabre ed eteree dove il basso risuona profondissimo, prendendo per mano l’ascoltatore e conducendolo lungo caliginose lande siderali. In questa realtà incomprensibile, l’uomo può aggrapparsi soltanto all’irrazionale. Il magnifico verso finale che chiude l’album e il brano omonimo ne è perfetta sintesi: “I went away alone / with nothing left / but faith…”. Smith contempla la morte e la Morte guarda dritto negli occhi di Smith; o forse sarebbe più corretto dire che ne contempla i rituali descrivendone l’umano esperire, il tentativo, cioè, di razionalizzazione dell’irrazionale che ha dato come risultato la “religione”, emblema del distacco ultimo dalla realtà, palliativo ottenebrante e manipolatorio. Lo spettrale monastero ritratto in copertina sembra essere l’unico rifugio possibile in attesa del cupio dissolvi. Ma non si tratta di apologia della Morte o di morbosa fascinazione verso l’estetica religiosa (cattolica, in primis): Faith parla della condanna della Vita.
Il 45 giri di “Primary” viene pubblicato il 17 marzo 1981. Il frizzante piglio ritmico sostenuto da due bassi (uno suonato da Gallup, l’altro da Smith) che dialogano su un lessico elementare ma efficace e la melodia infantile (una costante dei Cure), quasi una filastrocca (da cui il titolo), sono stranamente assai poco rappresentative del tono generale dell’album. Parlare di Faith significa addentrarsi in perigliosi sentieri costellati di contraddizioni, perché oggettivamente i Cure oscillano qui tra vuota formalità estetica e umbratile sostanza, fascinosi e disturbanti, ermetici e perspicui, astrusamente complessi o apparentemente banali. La loro musica è una fotografia volutamente sfuocata, che evoca paesaggi in bianco e nero intravisti appena nella nebbia autunnale: la visione è distorta, poco nitida, sembra di scorgere antiche vestigia gotiche e si sente il lieve, dolce profumo (quello sì, nitido e inconfondibile), dell’umida coltre che le circonda. Tutto questo è riassunto già nella sontuosa traccia iniziale, “The Holy Hour”, inaugurata da un macabro riff di basso carico di chorus, uno di quei riff che solo il Gallup più ispirato potrebbe tirare fuori mentre martella le corde all’altezza delle ginocchia. Smith canta una litania che parla forse di una messa o del ritrovo di una setta religiosa: difficile trarre indicazioni definite da una scrittura così intimamente personale e ambivalente che rasenta lo stream of consciousness. Questo non è rock’n’roll. E che i Cure non fossero una “rock band” lo si era quantomeno subodorato il 5 luglio del 1981 al Rock Werchter Festival quando, al termine di una lunghissima ed estenuante versione di “A Forest”, un alticcio e incazzoso Simon Gallup si avvicina al microfono e grida. “FUCK ROBERT PALMER! FUCK ROCK’N’ROLL!”. Altro da aggiungere?
L’irrazionale come elemento salvifico subentra nei due brani conclusivi, che sanno di quiete, desolata e a tratti psicotica ma pur sempre quiete. “The Drowning Man” è una piccola sinfonia minimalista costruita su una progressione cromatica discendente, farfalla impagliata su tela nera che si dibatte senza speranza. Fucshia, la protagonista della canzone, non è che il doppio di Smith: in piedi, guarda giù, verso l’acqua che forse l’attende… In chiusura, il brano che dà il titolo al disco, uno dei più importanti (e amati) di tutta la carriera dei Cure. “Faith” incede maestosa, ipnotica, dolente, evocativa: chitarra e basso dialogano che è una meraviglia, il synth incombe sullo sfondo come una presenza invisibile e minacciosa, la batteria scava accenti tombali. L’intro strumentale pare interminabile; poi, dagli abissi, una voce che implora “Catch me if I fall / I’m losing hold…”.
Non è rimasto nulla se non la speranza, non è rimasto nulla se non la fede. Ma la solitudine è totale, assoluta: “Please say the right words / or cry like a stone white clown / and stand / lost forever in a happy crowd / […] / Justified with empty words / the party just gets better and better”.
I Cure sono alla ricerca di un’identità sonora originale che qui va sempre più definendosi ed è inutile fingere di non notare un pizzico di autocompiacimento in questo letargico salmodiare, nei lunghi passaggi strumentali, nelle astruse allusioni filosofiche e letterarie. “Fratello Robert” si erge a sommo sacerdote di una liturgia pagana che, tempo un lustro, farà proseliti a milioni. Ma prima bisogna attraversare l’Inferno.