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REVIEWSLE RECENSIONI
17/12/2020
Pole
Fading
Dalla mente e dalle abili mani elettroniche del tedesco Stefan Betke esce Fading, quarto lavoro del progetto Pole. Ha sempre abituato i propri ascoltatori a veri e propri viaggi sonori, immersi nella cruda finzione di suoni prestanti e portanti che trascinano l’orecchio a stretto contatto con gli occhi adottando un’incredibile maestria.

L’apripista Drifting ci immette sulla giusta strada, prendendosi più di tre minuti prima di darci l’input ritmico, incisivo quanto improvviso. Colpisce la tendenza di queste note basse, vere e proprie simulazioni contrabbassistiche che oltre a fungere da frequenza grave, tengono su anche l’apparato armonico pur evitando note lunghe ma anzi giocando con staccati che punzecchiano il ritmo e gli interventi rumoristici saltuariamente in primo piano nello spettro sonoro, fino a decadere e lasciare emergere con delicatezza suoni disturbati e malinconici.

Tangente prosegue partendo subito da una continua e pungente base ritmica in cui mi colpisce la vera e propria scelta sonora dei surrogati ritmici, che si sostituiscono a cassa, rullante e charleston, non lasciandone sentire la mancanza ma anzi lasciando aperta la porta dell’immaginazione. Il solito basso presente e frammentato, stavolta in sincopi e con l’utilizzo di una sola nota, cosa che non fa che reggere il sottofondo e consentirci di spostare l’attenzione sui giochi sonori, distribuiti su almeno tre piani distinti. Emerge un suono o comunque un reverbero che mi invita a casa e mi ricorda infatti qualcosa di Kid A che poi riconosco appartenere alla stessa traccia omonima ed in certi aspetti alla meravigliosa Treefingers.
E pur non spostando l’armonia di un ciglio, l’atmosfera cattura e non ti fa sentire alcuna mancanza.

Siamo chiaramente in un territorio ostile per gli ascoltatori più equilibrati e pop, vista la mancanza del ruolo vocale. Eppure non riesco a staccarmi dalla voglia di approfondire l’ascolto, come se nascondesse qualcosa sull’imminente punto di essere scoperto.

Ecco ad esempio che sulla successiva Erinnerung, dopo un intro grigio e crepuscolare, cominciano ad emergere dei suoni messi in faccia ed in prima linea, come questi appoggi tastieristici che sembrano persino sposarsi male tanta è la loro freschezza. Ma no, non lo penso, perché in fondo il quadro che si sta delineando, è tutto fuorché scuro, come si potrebbe forse pensare: è grigio, certo, ma non nero.
E visto che si parla di quadri, trovo un fortissimo legame con l’immagine di copertina che mi azzarderei a descrivere senza riguardarla, ma per ciò che mi ha lasciato in quel paio di volte in cui l’ho vista, come un telo di velate comparse sullo sfondo dell’apparente nulla, composto da un continuo intersecarsi e sovrapporsi di tratti casuali che alla fine formano uno sfondo offuscato ma chiarissimo nella sua collocazione tra il post apocalittico e il mondo degli spettri. Come un vecchio muro destinato alle affissioni di tanti manifesti dopo essere stato maltrattato e strappato nella totale casualità ed essere stato dimenticato alle azioni del tempo.

Ed ecco che emergono due figure in un leggero primo piano, almeno così me le ricordo mentre continuo ad ascoltare e mi ipnotizzo tra i synth circolari ed i feedback di Traum. Due figure che definirei un uomo e una donna, forse vecchi abitanti di quel luogo, o comunque attuali occupanti di quello spazio che evidentemente, aldilà della propria storia e del proprio passato, rivendica l’unica maniera di essere che conosce in tutta questa precarietà di stato e di forme, che è il presente.
Un legame fortissimo di rapidi flash tra il bianco e il nero che si legano ai suoni e viceversa, dando spazio alla terza variabile, che sembra essere stata prevista durate la scrittura delle musiche e la scelta della copertina; questa nostra creazione di immagini.

Tölpel con i suoi incastri ritmici sembra una formula magica che serva più a tenerci inchiodati che a sublimarci, ma visto il punto in cui sono non posso che accettarlo. Certo, fosse stata la traccia di apertura non so se avrei reagito nella stessa maniera e se da un lato penso all’importanza dell’ordine delle tracce in un viaggio sonoro come questo, dall’altro percepisco quanto sia fondamentale ascoltare un disco come questo nella sua interezza, un richiamo all’ordine e alle origini o comunque alla più pura forma percettiva di un messaggio scritto su una fune che non fa che scorrere tra le nostre mani.

Ce lo conferma Röschen, successiva traccia da un lievissimo sapore evocativo che pare più rimarcato del dovuto, forse colpa (o merito) del suono lungo che scimmiotta un corno francese o comunque uno strumento a fiato; pare infatti un richiamo didascalico di ciò che erano riusciti ad evocare fino ad adesso ma senza artifici.
La canzone va verso la fine e sembra spezzettarsi sempre di più, prendendo più la forma di un puzzle, tanto sono incastrati gli incalcolabili botta e risposta in cui ti trovi immerso. È il caos di un affascinante mosaico del quale scoprirai la forma solo quando te ne staccherai e lo osserverai dall’alto e il risultato finale in questo caso, inutile dirlo, è perfettamente riuscito.

Nebelkrähe, che ha anticipato l’album di qualche settimana, ha la forma digitale e sbriciolata di una lentissima ricerca di connessione, tanto che sembra di essere al centro di questo router e del suo piccolissimo mondo sperduto. Un ritmo continuo ed appena sospeso, un basso fatto da dei colpetti in levare il cui giro si sviluppa in una circolarità che è doppia rispetto a quella del ritmo e questa cosa rende tutto inaspettato quanto basta. Un suono di chitarra digitale distorta gioca a riempire tutti questi spazi insieme ad una tastiera che in un altro contrasto potrebbe anche suonare giocosa.
Sotto a questo loop di ricerca si stende un tappeto scuro appena percepibile ma che realizzo essere l’elemento portante di tutto il brano, almeno rispetto alla primissima sensazione di mondo digitale che mi si era incollata addosso.

Attendo Fading, ultima ed ottava traccia dell’album, con una certa curiosità visto il livello inaspettatamente alto di questo ascolto che mi ha tenuto inchiodato come ad una mostra che ti porta altrove per tre, quattro ore e così è stato con Pole.
Mi sembra non cambiare niente, addirittura mi pare di essere nella solita velocità, nel solito loop di Nebelkrähe e mentre ascolto penso al perché, ipotizzo ci sia un motivo diverso dalla banalità.

Non succede niente, una lunga sospensione, una forzatura elastica ad un momento che già era esistito, con la differenza che strumentalmente accade anche qualcosa di meno, manca la sorpresa.
Ah no, eccola. È un suono che sembra una voce, che forse non lo è ma questo mi porta a pensare. D'altronde neanche il contrabbasso era proprio quello, i surrogati ritmici non erano batteria, il corno francese non era quello ma tutto ti portava a immaginartelo. Come se ci volesse far provare la mancanza di ciò che siamo abituati a riconoscere, rievocarlo, salvo trovarsi sperduti dentro l’impotenza di un’illusione.
Allora penso che neanche la copertina forse sia un quadro, e forse neanche i due personaggi che ci ho visto ci sono, magari sono solo degli incastri di colori che mi portano a pensarlo. Così è per questo che sento un suono che mi ricorda la voce e per sentirmi realizzato in questo mio viaggio in solitario, materializzo le grida offuscate di quei due personaggi che ho visto in copertina.
Beh, e allora anche ammettendo di essere in un posto sperduto o illusorio, Stefan Betke ha previsto tutto ed alla fine mi ha portato a capire che forse quella voce immaginata era soltanto la mia, entrata talmente all’interno di questo ambiente sonoro da ritagliarsi uno spazio proprio che scongiurasse il minimo sospetto di solitudine.

8,5/10

P.S. Scopro poi che l’ispirazione per la scrittura di queste tracce è stata la madre, l’Alzheimer, la perdita dell’uno per l’altro con la conseguente e irreparabile solitudine reciproca.
Quindi eccola, chiara e limpida, la dissolvenza in cui si è trovato Betke, il fading appunto, espresso meravigliosamente in queste otto tracce astratte, deframmentate ma incredibilmente vivide.


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