La parola “Korobu”, che rimanda ad una vicenda storica controversa e decisamente poco lineare (per chi non avesse voglia di buttarsi sui libri c’è comunque l’ottimo Silence di Martin Scorsese, a restituire almeno le linee fondamentali di ciò che accadde alle missioni gesuitiche nel Giappone del XVII secolo) potrebbe essere a suo modo paradigmatica per descrivere un disco che parla alla nostra epoca, pur facendolo con un linguaggio in gran parte datato. Che significhi “abiura” (come di fatto sembrerebbe a guardare i fatti) o vada piuttosto inteso come un generale perdersi e precipitare nell’indistinto), il monicker di questa nuova band appare azzeccato ed in piena sintonia col titolo del loro esordio.
Fading/Building, dialettica tra lo svanire e il costruire, tra scomparire ed edificare, vale a dire tra la fine di un’epoca a cui ci eravamo stancamente assuefatti e l’affacciarsi di una fase che, tra pandemia e guerra in Europa, facciamo fatica a battezzare come rassicurante.
Non ho letto i testi delle otto canzoni che compongono il debutto del trio bolognese ma, tra gli input musicali e la suggestiva copertina (realizzata da un nome importante come Ericailcane) credo che più o meno siamo da quelle parti lì.
Al di là di ogni dietrologia, fa piacere trovare sempre ben nutrita la schiera di band italiane che guardano altrove rispetto ai modelli imperanti. Giallo (voce, basso e synth), Christian (batteria e percussioni elettroniche) e Alessandro (chitarre e synth) non sono esattamente dei novellini, dato che hanno militato in alcuni progetti coi quali hanno anche avuto modo di pubblicare lavori in passato. Adesso uniscono le forze e provano a ritagliarsi un po’ di visibilità con questo Korobu, che arriva al debutto grazie all’interessamento del Locomotiv, storico locale di Bologna, tra le venue più importanti d’Italia (chi non ci avesse visto nessun concerto magari se lo ricorda in una delle ultime scene di We Are Who We Are, la serie Tv di Luca Guadagnino, dove in quell’occasione i protagonisti finivano per vie rocambolesche ad un concerto di Blood Orange che si teneva proprio lì) che adesso ha deciso di lanciare la propria etichetta personale.
Fading/Building segue una formula tipica di questi anni, vale a dire assemblare una serie di influenze disparate che si muovono soprattutto in territorio Eighties, una passione per suoni e strumenti Vintage (sono andati a prendersi dei preamps dall’East German National Broadcasting) e una spiccata propensione a favorire basso e Synth nell’impianto sonoro.
La bio cita Talking Heads, Tv On The Radio, Animal Collective ma anche Can e Beatles, un patchwork di riferimenti che prefigurano un disco assemblato in studio con una maniacale ricerca alla perfezione del dettaglio.
Sono bravi e hanno un ottimo gusto, lo si capisce sin dall’opener “Weird Voices”, ritmiche saltellanti punteggiate dai synth, linee vocali cantilenanti, un mood generale non troppo distante da ciò che non molto tempo fa hanno provato a fare gruppi come Gentle Grip e Workingmen’s Club.
Altrove, come in “Roads”, emergono influenze Kraut ma anche un certo modo tipico dei Radiohead di reiterare le linee di chitarra, oppure una notevole abilità nel costruire brani scarni ma semplici ed efficaci (“Dropped Pleasure” ha un bel ritmo incalzante e un ritornello contagioso).
“Even Today” è un po’ più scura, a tratti anche marziale, con la componente elettronica decisamente più accentuata ed un modo di filtrare le vocal che sa molto di retrofuturismo (stessa cosa per “Interstellar”, sorta di loro personale tributo ai Daft Punk).
Sono bravi a destrutturare la forma canzone e a fissarsi sui ritmi (c’è un po’ di tutto, dall’Afrobeat a percussioni raccolte in giro per il mondo), a tenere l’attenzione sul Beat e sui nuclei melodici di ogni singolo brano.
Il rischio di cedere alla tentazione dell’autocompiacimento è sempre costantemente nell’aria ma del resto se prendono a modello gli Animal Collective, quella è una band che si è specchiata in se stessa spesso e volentieri, sui Talking Heads potremmo dire la stessa cosa (ricordiamo lo scetticismo con cui vennero accolti agli esordi da chi li definiva dei semplici studenti d’arte un po’ snob). Loro, tuttavia, ne escono quasi del tutto indenni, anche se certi aspetti del songwriting sono senz’altro da migliorare.
Un’opera prima convincente e un altro bel segnale d’incoraggiamento per un’Italia che sembra si sia messa molto più seriamente di prima a guardare ciò che accade fuori dai propri confini.