Il mondo del metal, più o meno pesante, più o meno commerciale, ha visto negli anni un susseguirsi di stelle cadenti, di meteore, fortunatamente cadute nel dimenticatoio a causa di un prodotto di scarsa qualità e in linea con le richieste temporanee del mercato. In tutto questo marasma di distorsori e headbanging si sono fatti strada sgomitando i Five Finger Death Punch, quintetto americano a cui va il merito, nel bene e nel male, di riuscire sempre a far parlare di sé.
Ivan Moody & co. ci hanno da sempre abituati a dischi ben prodotti, molto ben composti, con composizioni che spaziavano da pezzi piccati a ballad con accendino alzato al seguito e occhietto umido. Memori dei loro successi, e dopo averli visti live diverse volte, avevo riposto in F8, loro ottavo album, tantissime aspettative, le quali sono state decisamente disattese, creando un senso di amara delusione dopo il primo ascolto.
La sensazione che pervade tutto l'album è quella di essere di fronte ad un lavoro su commissione, uno di quelli che devi per forza comporre e pubblicare per vincoli contrattuali, insomma quella cosa che proprio devi cacciare fuori e di cui tutti, soprattutto chi ascolta, ne farebbero volentieri a meno. I pezzi, poco strutturati di per sé, sono tutti incredibilmente piatti, senza spina dorsale, simili e che si trascinando a fatica fino alla fine del disco.
Qualcosa di positivo comunque c'è, ossia la produzione, che rimane comunque di altissimo livello, che ben equilibra i suoni dando ad ogni componente la giusta importanza mettendo in evidenza pregi e qualità.
Se normalmente di un album ci si ricorda di un pezzo, di un ritornello o di un titolo, in questo purtroppo assistiamo ad un nulla che non lascia alcun desiderio, se non quello di premere “stop” a far ripartire gli album precedenti.