Come abbia fatto Lykke Li ad architettare quest’opera in maniera così perfetta in ogni singolo dettaglio rimane un mistero, anzi, una lacerante meraviglia. Rappresentare in testi e musiche la disperazione di un cuore spezzato ha un forte significato drammatico, ma ciò non è sufficiente per riuscire a evocare e raffigurare il tormento che si infila come una spada affilata nel profondo dell’animo.
Certamente può avere influito la scelta di chiudersi e registrare nella sua camera di Los Angeles, il fatto di essere tornata a collaborare con il compagno d’avventura storico, quel Björn Yttling che tanto aveva contribuito a rendere speciali i primi tre album, fra cui l’acclamato I Never Learn, nell’ormai lontano 2014.
L’esistenza stessa della modella e songwriter è sempre stata un turbinio continuo di movimenti, di partenze e ritorni. Dalla natia Svezia, per la precisione a Ystad, in Scania, al Portogallo, il Marocco e il Nepal. Poi di nuovo alle origini, a Stoccolma, ed infine a Brooklyn, ove nel 2007, poco più che ventenne, pubblica il suo primo EP. Un saliscendi di luoghi ed emozioni spesso insieme ai suoi cari, la famiglia Zachrisson, un “quintetto” composto da fratellino e sorella maggiore, con papà musicista hippie e mamma fotografa, i quali parecchio hanno influenzato e stimolato la crescita artistica della figlia.
Tuttavia il saper catturare fervidamente la tragedia della scomparsa di una passione che si credeva, o almeno si sperava, fosse eterna, la descrizione dell’illusione del momento in cui la luce dell’amore abbaglia, anche se presto poi si spegne, non può che confermare quanto l’autrice abbia davvero sofferto realmente nel trasmettere ciò che ha provato, frutto di altrettanta tribolazione, creando una struggente empatia con l’ascoltatore. Una crisi che sovente colpisce i personaggi maggiormente sensibili. Proprio quando si pensa di aver raggiunto le mete prefissate e si diventa famosi, ci si può accorgere del fatto che si resta comunque vulnerabili e indifesi durante gli accadimenti della vita, specialmente se si tende a viverla intensamente e si privilegia il sentimento, financo l’utopia, rispetto al pragmatismo.
Eyeye è lungo 33 minuti e 33 secondi, palindromo nel titolo e nella durata: otto canzoni la cui parte vocale è stata incisa su un microfono da batteria tenuto in mano, spesso proprio nel momento della scrittura, rappresentazione sconsolata della fine di un amore, di un giorno che non si sarebbe mai voluto veder tramutare in sera.
L’iniziale e primo singolo estratto "No Hotel" risulta subito uno dei vertici del disco e introduce alcune delle caratteristiche che rendono unico tale lavoro. Canto in primo piano, lieve accompagnamento strumentale (una tenue chitarra, tastiere ed elettronica) sullo sfondo, a contorno delle parole, frasi languide che disegnano una memoria impossibile da cancellare. “Così, ora, tesoro, torna indietro, portami indietro, oh, di nuovo nel mio letto, di nuovo nel mio cuore, di nuovo tra le mie braccia, sotto il mio cuore”, è una vera implorazione quella di Lykke, che prosegue nell’elegia di "You Don’t Go Away", “Mi sento così sola, non lo senti?”.
In "Highway To Your Heart" avviene un primo cambio di direzione e, dal punto di vista musicale, i sintetizzatori analogici si ergono al comando, a tratti gorgheggiando, mentre liricamente vi è un fugace tentativo di uscire dall’abbandono, nonostante forse la strada non sia ancora quella giusta. “Mi sto ubriacando e sballando, ma non durerà a lungo, mi sento ancora sola”.
Il viaggio nello struggimento è qualcosa di catartico per l’autrice famosa grazie alla hit "I Follow Rivers" (del 2011, diventato un tormentone con il remix di The Magician) e l’approccio alla disperazione approda su un livello più concettuale e consapevole con "Happy Hurts". L’organo, il piano e straordinari effetti elettronici avvolgono la malinconia di chi accetta, togliendosi ogni speranza, la possibilità che l’altro non torni. “La felicità fa male, non si è mai pronti a questo, l’estate divampa e tu fuggi, vai di nuovo da lei, con la tua Chevrolet argento”, ecco una verità che brucia e spinge a considerazioni filosofiche riguardo a come la gioia non possa essere percepita senza il dolore.
“Eyeye è il dipinto di un ricordo. Vedo la musica come una “scala per il paradiso”, qualcosa che ha a che fare con il cosmo”.
Lykke Li non è mai banale quando si racconta nelle interviste. Si vede che tiene molto a quest’opera e preferisce non ridurla a un concept album. Si tratta di un disco profondo, costruito su echi e riverberi, nei brani iniziali si ode pure il frinire dei grilli e, in generale, regna una suggestiva stratificazione del sound. Tutto si diffonde lentamente nell’aria, e intanto i testi proseguono nella confessione senza pudore.
"Carousel" è la gemma incastonata in questo gioiello di LP. Rifulgono i temi ricorrenti di Eyeye, che si avvitano e avviluppano nelle melodie: la dipendenza emotiva, le ossessioni, la tendenza a ripetere gli stessi errori, l'alcol e le droghe, l'idealizzazione delle relazioni, l'amore come incantesimo benedetto e maledetto, al quale non si sfugge, ma a cui ci si abbandona con piacere.
E naturalmente la tristezza che muove tutto, la tristezza che la songwriter svedese riesce immancabilmente a rendere sexy. “Di nuovo sulla giostra. Impossibile, vedo i tuoi occhi…ruota il mio cuore tutto intorno, volando e non riesco a scendere. Sì sono di nuovo sballata da morire e non riesco a lasciarlo andare…”, canta sconsolata, prima di una lunga coda strumentale di una bellezza accecante, che trasmette anche a livello sonoro cosa significhi stare su una giostra, giocando coi synth e provocando quella sensazione di girotondo interminabile dato da un loop di tastiere. Scende pure qualche lacrimuccia, mentre si riflette sullo stereotipo riguardo all’elettronica, frequentemente ritenuta algida e senz’anima dimenticando che tutto dipende dalla magia e dall’estro di chi la comanda.
"5D", il sesto brano, comincia invece la discesa sulla terra, non si vola più, giunge il cupo e brusco risveglio. Finalmente e fatalmente avviene la - ora definitiva - accettazione del lutto emotivo, e la frase dirompente “Daydreaming’s not enough, I’m waking up” spegne ogni sogno. "Over" esplicita il travalicamento dell’innamoramento e il rigetto della passione con parole chiare, “Sono qui per superare, sto superandoti come ostacolo” e, in seguito, “Non ho bisogno di te, non voglio l’amore”.
Senza neanche accorgersene si giunge all’ultima traccia, trascinati per tutto il tempo dallo stile vocale morigerato, ma altamente emotivo, e dal ritmo melodrammatico. Un ritmo che, a differenza degli esordi, non è più animato da tamburi fragorosi e rullanti (ad eccezione della citata "Over", che per manifestare un momento di ribellione rinvigorisce l’aura con una potente “drum machine”), convive con arrangiamenti semplici, disadorni, comunque avvolgenti e, in cima a tutto, cinematografici. E a conferma di quest’ultimo concetto l’album è accompagnato da una serie di video pubblicati su tutte le piattaforme social e girati su una pellicola da 16 mm, per rievocare i temi fondamentali delle canzoni, senza raccontarli, aggiungendo piuttosto fascino e curiosità.
A tal fine la conclusiva "ü&i" sembra la perfetta colonna sonora a chiusura di un film tragico e commovente, con quella “batteria” distante e sferragliante, come i rumori appena percepiti di un cantiere fuori mano. “The movie is You and I”, continua a ripetere Lykke Li e la sua voce si perde in lontananza. Quest’ultimo effetto si collega ai motivi circolari e palindromici di Eyeye, che proseguono la loro evoluzione; diversi versi di "ü&i", infatti, vengono pronunciati al contrario e vi sono continui riferimenti alla partenza, alla perdita dell’amante. E forse proprio qui si palesa il significato della vita per l’autrice: girando e rigirando sulla giostra dell’esistenza ogni cosa appare e poi sparisce, si cerca e poi si perde e tutto ciò provoca malinconia e dolore. L’importante, però, è non fermarsi e non smettere mai di affacciarsi sul giardino della speranza, tra ricordi, sogni e inopinata realtà.
“La tristezza può anche essere una benedizione. Si tratta di riconoscerla, accettarla e andare avanti. E poiché si tratta di un sentimento potente, posso dire di aver trovato la bellezza nella tristezza”.