La storia inizia da molto lontano, quando, nel 1994, Nicke Andersson, batterista della band death svedese degli Entombed, mollò baracca e burattini per formare l'ensemble garage rock degli Hellacopters, insieme al chitarrista Dregen, co-fondatore dei Backyard Babies. Un azzardo che si rivelò azzeccatissimo, visto che in poco tempo la nuova creatura riuscì a ritagliarsi uno spazio sempre più ampio, tanto da essere considerata, almeno in quegli anni ’90, una delle più interessanti realtà della scena alternativa svedese.
Tra il 1994 e il loro scioglimento, avvenuto nel 2008, la band ha prodotto sette scalmanati album di rock and roll con influenze punk, facendo propria l’eredità di band come MC5, New York Dolls, Ramones e Motörhead. Dopo essersi riuniti, nel 2016, per suonare in un tour dedicato al 20° anniversario del loro album di debutto, Supershitty To The Max!, da allora, gli Hellacopters hanno calcato con continuità il circuito dei festival, almeno fino a quando è stato possibile, e finalmente, lo scorso anno, hanno annunciato di aver raggiunto un accordo con l'etichetta discografica tedesca Nuclear Blast e di essere pronti a tornare sulle scene con un nuovo disco di materiale originale.
Le dieci canzoni in scaletta testimoniano che il tempo non ha offuscato il loro spirito battagliero, né li ha derubati della loro inesauribile vitalità, poiché Eyes Of Oblivion è uno straordinario promemoria di tutto ciò che ci siamo persi in questi tredici anni di attesa. Un ritorno a bomba, in cui la band sfodera il consueto armamentario di rock'n'roll e spavalderia, dieci canzoni per trentacinque minuti di assalti all'arma bianca, brani innodici e melodie scartavetrate dal graffio di chitarre in acido. Rapidi e letali come un serramanico, primitivi ed essenziali, gli Hellacopters non fanno certo rimpiangere i loro giorni di gloria. Anzi.
Trentacinque minuti di adrenalina pura, intervallati solo da "So Sorry I Could Die", un midtempo blues a lenta combustione, interrotto, però, da un improvvisa accelerazione, evidente citazione dei Black Sabbath di "Paranoid". Per il resto si corre a cento all’ora, fin dall’iniziale derapata blues rock di "Reap A Hurricane", trascinata da uno splendido suono di chitarre stridenti, dalla sezione ritmica che pompa testosterone e dalla voce scorbutica e alcolica di Andersson. Il presente saluta il passato senza alcun ammiccamento nostalgico, ma con una furia rockista capace in tre minuti di asfaltare ogni dubbio circa la tenuta di una band con quasi trent’anni di carriera alle spalle.
Non è un episodio isolato, però, perché tutto il disco fila dritto come un fuso su coordinate basilari ma efficacissime: tre accordi e un ritornello da mandare a memoria. Non è forse questa l’essenza del rock’n’roll? Ecco, allora, i due minuti di "Can It Wait", che, vent’anni dopo, evocano la sfrontatezza melodica di "By The Grace Of God", la rincorsa a perdifiato della title track, che sfodera con naturalezza uno di quei ritornelli che molte band farebbero carte false per riuscire solo a immaginarlo, lo sberleffo orrorifico di "A Plow And The Doctor", il battito sferragliante di "Beguiled" o il puzzle citazionista dell’esuberante "Tin Foil Soldier", incipit alla Guns & Roses e svolgimento sfacciatamente glam.
Dopo troppo tempo lontano dallo studio di registrazione, è evidente che gli Hellacopters avessero un surplus di energia da sfogare, e questo aspetto è quasi palpabile per come la band sta china sugli strumenti a scaricare adrenalina ed elettricità. Certo, dopo tredici anni, il minutaggio del disco è un po' scarso, e soprattutto un fan della prima ora avrebbe voluto ascoltare di più. Tuttavia, i trentacinque minuti di durata sono assolutamente perfetti e, probabilmente, per essere davvero efficace, questa musica ha bisogno di un ascolto rapido come il movimento di queste dieci, sferraglianti, tracce. Un ritorno coi fiocchi, uno dei migliori dischi rock dell’anno.