Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
Everything’s Alive
Slowdive
2023  (Dead Oceans)
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK ALTERNATIVE
8/10
all REVIEWS
04/09/2023
Slowdive
Everything’s Alive
"Everything’s Alive" è il disco in cui gli Slowdive ritrovano in pieno il suono del passato e lo ripropongono quasi del tutto immutato, fatta salva la sintonia sonora con la contemporaneità. Un ottimo ritorno, forse più ispirato del suo predecessore, che a dispetto del periodo cupo in cui è stato composto sembra dirci che ci sono un sacco di motivi per vivere la vita.

La storia recente degli Slowdive è figlia dell’ondata nostalgica che ci ha colpiti nell’ultimo decennio, per cui quasi tutte le band che siano state attive anche solo per un disco tra ’80 e ’90, sono tornate sulla scena nel tentativo di raccogliere frutti che all’epoca erano stati negati o di cui avevano goduto troppo poco.

Il quintetto di Reading non se l’era passata poi malissimo: due dischi meravigliosi, il plauso della critica, un certo successo commerciale (si fa per dire), l’etichetta di “padrini dello Shoegaze” affibbiata loro da più parti, sono stati per una manciata di anni molto più di un gruppo di culto. Con Pygmalion, datato 1995, è finito tutto (anche per problemi famigliari di Rachel Goswell) ed è davvero difficile pensare che li avremmo rivisti, se la tendenza generale non fosse stata quella di rivolgersi prepotentemente al passato.

Slowdive, nel 2017, era stato un ritorno convincente, la certificazione che c’era ancora tanta voglia di dire qualcosa, non solo di riunirsi sul palco per suonare i vecchi successi.

Sono trascorsi sei anni, ma non sono tanti, se si conta che ne hanno passati due in tour e due a comporre, con in mezzo il Covid e alcuni lutti personali (Rachel Goswell ha perso la madre, il batterista Simon Scott il padre, entrambi nel 2020).

Registrato tra Oxfordshire e Lincolnshire, oltre che nello studio di Neal Halstead in Cornovaglia, prodotto dallo stesso cantante e chitarrista e mixato in gran parte da Shawn Everett (che ha lavorato tra gli altri, con War on Drugs, Alvvays e SZA), Everything’s Alive è il disco in cui gli Slowdive ritrovano in pieno il suono del passato e lo ripropongono quasi del tutto immutato, fatta salva la sintonia sonora con la contemporaneità. Rachel Goswell ha dichiarato che, sebbene Neal fosse già arrivato in studio coi brani pronti e con una idea piuttosto precisa di come avrebbero dovuto suonare, alla fine l’incontro tra i cinque ha stravolto tutto perché – testuali parole – “Gli Slowdive sono la somma delle sue parti, succede qualcosa difficile da spiegare quando ci troviamo in studio”.

In effetti a colpire è esattamente questo, la straordinaria alchimia che c’è tra di loro, la perfetta fusione tra i vari strumenti, a creare un muro di suono delicato e avvolgente, le chitarre che si sposano a meraviglia con le tastiere, le due voci che non si sono mai compenetrate così bene tra loro (semmai, l’unica osservazione che si può fare è che a questo giro Neal canta molto di più, lasciando spesso Rachel alle backing vocals, oppure affidandole dei ritornelli).

La band che ha inventato lo Shoegaze (ammesso che sia vero, di sicuro sono tra quelli che lo hanno portato ai suoi livelli più alti, oltre ad averlo interpretato nella sua versione più melodicamente accessibile) ci riporta direttamente su quei territori, gioca ad autocitarsi e mette in campo soluzioni consolidate senza tuttavia scadere mai nel manierismo (quasi mai, diciamo).

Il risultato è un lavoro che complessivamente suona forse più ispirato del suo predecessore (che pure viaggiava su livelli alti) e che a dispetto del periodo cupo in cui è stato composto non suona affatto depresso ma anzi, solare e per molti versi pieno di speranza. In effetti il titolo parla da solo: Everything’s Alive sembra dirci che ci sono un sacco di motivi per vivere la vita, che il mondo è luminoso e ricco di promesse, nonostante tutta la drammaticità che è dato di sperimentare.

Otto canzoni (come nel precedente) che sono la summa della scrittura del gruppo di Reading, da quelli più diretti (la classicissima cavalcata di “Alife”, il primo singolo estratto “Kisses”, dal ritornello particolarmente incisivo, che qui da noi ha fatto notizia soprattutto per il video di Noel Paul girato a Napoli) a quelli musicalmente più elaborati (la lenta e romantica “Andalucia Plays”, con un’ottima interpretazione vocale di Neal e “Chained to a Cloud”, col suo giro di tastiera dal sapore cosmico, sono senza dubbio i due poli attorno a cui ruota tutto il disco).

Da sottolineare anche il piglio convincente dell’iniziale “Shanty”, più tastiere che chitarre, voci eteree e una base ipnotica al confine col Dream Pop; decisamente lisergica è poi “Skin in the Game”, anche questa che mette in mostra un gusto melodico che non denota cali di sorta. Interessante “Prayer Remembered”, con tutta la stranezza di mettere una strumentale al secondo posto in scaletta, “The Slab” è poi uno degli episodi più belli, suono profondo e stilisticamente l’unica a discostarsi leggermente dal resto.

Un ottimo ritorno, anche se di possibilità per farsi notare di più rispetto al periodo d’oro temo non ce ne siano più. Attendiamo di vederli dal vivo (per ora c’è stato solo un passaggio all’Ypsigrock ad agosto) perché anche da quel lato sono sempre stati memorabili.