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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
16/10/2017
Black Flag
Everything Went Black ovvero welfare e hardcore
Presto anche noi godremo di questi trattamenti privilegiati… il pensiero unico colà giù da Hermosa Beach sino a Modena, Roma e Napoli… i nostri governanti sono chiari: più Europa e più Stati Uniti d’Europa, questa la sfida della postmodernità. Sindacati, partiti, associazioni sono già stati distrutti. Anche noi deliberemo, perciò, il gusto ineguagliabile del disorientamento, della solitudine, dei parcheggi di roulotte… case di cartone, espulsione dalla catena sociale, istruzione pressapochista… il welfare unifica troppo, bene ridurlo con il mantra dell’efficienza…
di Vlad Tepes

I Black Flag SENZA Henry Rollins (sopraggiungerà nel 1981), ma con Greg Ginn (autore di tutti i brani e già manipolatore d’una sei corde catarrosa e trascinante) e Dez Cadena… già si intuisce tutto. Il punk europeo è una cosa, l’hardcore americano un’altra. Come dire: due popoli divisi da una sola lingua. Il punk si compiace del mondo sottosopra e della provocazione sistematica al perbenismo della classe media (che include il pubblico del punk): una pulsione bruciante e anarchica, ma attutita dal materasso dello stato sociale e risolta spesso in un anelito comune: nazionale, sociale, latamente identitario (If The Kids Are United!), a volte addirittura giocoso ed esibizionista; negli Stati Uniti, invece, il frontismo è assoluto e, soprattutto, portato a livello individuale con scarsi riferimenti alla mediazione politica (partiti, sindacati, movimenti) anche nei gruppi che potremmo ascrivere, con molta cautela, alla sinistra (Fugazi, Dead Kennedys); la potenza d’urto è fenomenale, irriducibile: essa conferma, peraltro, cosa sia il vero rock da quelle parti: una forma d’arte non popolare, in diretta contrapposizione con i miti fondativi della propria stessa nazione… una partita a poker che ha la posta più alta: la propria vita…

Ricordate cosa risponde il killer Chiguhr (No country for old men) al proprietario del drugstore che gli chiede cosa si sta giocando? Tutto, gli risponde… e ci si gioca tutto, in una sorta di ansia distruttiva… individuo contro Moloch statale: con il corollario clinico di tale scontro impari e fatale: depressione, brutalità, afasia, nichilismo, droga, autolesionismo… tutti quei condimenti psicologici che insaporiscono le più abissali produzioni sonore della terra di Colombo (Swans, Type 0 Negative, Cop Shoot Cop, ad esempio, fra le migliaia). Essere un fallito in Gran Bretagna o in Italia porta il sussidio di disoccupazione o i cento euro della famiglia; in America la vergogna ideologica e il dissolvimento nelle zolle di una terra sempre più straniera. Basta leggere Grapes of wrath.

Presto anche noi godremo di questi trattamenti privilegiati… il pensiero unico colà giù da Hermosa Beach sino a Modena, Roma e Napoli… i nostri governanti sono chiari: più Europa e più Stati Uniti d’Europa, questa la sfida della postmodernità. Sindacati, partiti, associazioni sono già stati distrutti. Anche noi deliberemo, perciò, il gusto ineguagliabile del disorientamento, della solitudine, dei parcheggi di roulotte… case di cartone, espulsione dalla catena sociale, istruzione pressapochista… il welfare unifica troppo, bene ridurlo con il mantra dell’efficienza…

Di questo passo prevedo la nascita di bei gruppetti hardcore italiani di qui al 2020; e pongo una domanda che mi sta a cuore: l’arte genuina, dirompente, ha bisogno del disagio sociale? Dell’insicurezza, della malattia? Non saremo diventati troppo morbidi, rispettosi, caldi, pasciuti, viziosi, concessivi verso un potere che ci ricatta minacciando il poco che abbiamo (parva sed apta mihi, il nostro caldo cantuccio borghese)?

Non necessitiamo di ingiustizia? D’un tiranno che ci opprima e tiri fuori il meglio di noi stessi – odio finalmente – e una volontà che non si piega perché non ha nulla da perdere?