"Everything Now", tutto adesso. L'affanno del nostro presente, la pretesa di avere ogni cosa a disposizione nell'immediato; una bulimia materiale e spirituale che porta l'uomo del XXI secolo a produrre, consumare e smaltire senza mai assimilare. In tempi di tormentoni stagionali (l'estate ormai non basta più) e show televisivi che, in netto contrasto con il loro nome, mortificano ogni possibile sussulto di talento appiattendo buona parte delle odierne uscite discografiche, la musica leggera vive un momento di stasi artistica preoccupante. Il "tutto e subito", l'urgenza di offrire in pasto ad un pubblico pavloviano - pazientemente addestrato a rispondere alle sirene del grande evento - prodotti di veloce consumo gabellandoli come eventi epocali, sta rapidamente uccidendo qualsiasi capacità di riconoscere l'effettivo valore di ciò che si ascolta. Una frenesia che si ripercuote sui media, dalla carta stampata a internet, perfino sulla critica musicale, ambito che richiederebbe un congruo tempo da dedicare ad ascolto, riflessione e sedimentazione. A poche ore dalla pubblicazione dell'attesissimo quinto lavoro di studio degli Arcade Fire, il web già brulicava di recensioni che avrebbero voluto apporre un giudizio definitivo sulla nuova fatica di Win Butler e soci. Un album che, a partire dal suo concepimento, ha impegnato il gruppo per quasi due anni. È vero che alcuni brani del disco erano già stati resi disponibili online dalla band; eppure risulta difficile, almeno per chi scrive, immaginare che meno di mezza giornata di ascolto possa essere risultata sufficiente per formare un giudizio esauriente, soprattutto per un'opera che nella sua interezza risulta ben più complessa delle singole tracce che la vanno a comporre. "Everything Now", esattamente come i suoi predecessori, è un lavoro profondamente stratificato la cui superficie è ciò che nell'immediato arriva all'orecchio dell'ascoltatore: la palese citazione degli Abba di Dancing Queen della title-track, la blaxploitation rivisitata in Signs Of Life, il dub-rocksteady allucinato di Peter Pan e Chemistry, la doppia versione (una electropunk e l'altra country-rock) di Infinite Content, la straziante armonia (contrappuntata dalla slide guitar di Daniel Lanois) che avvolge We Don't Deserve Love. Se ci si ferma a questo primo strato, senza ad esempio prestare attenzione al valore concettuale dei testi - in oscuro contrasto con l'apparente disimpegno di alcune composizioni - diventa perfino plausibile considerare "Everything Now" quella svolta pop evocata da più di un osservatore; in realtà, se ci ricolleghiamo ad illustri virate pop del passato, il disco - per eterogeneità di stili e concezione - è certamente più contiguo ad un lavoro come "So" di Peter Gabriel che ad "Abacab" dei Genesis. Un'opera che - in antitesi con quella che è la sua confezione - si pone in aperta critica nei confronti di una società ormai incapace di metabolizzare la sua stessa cultura, a partire dalla campagna promozionale del disco che ha visto i suoi singoli provocatoriamente abbinati alla sponsorizzazione di fasulle multinazionali. Qualcuno ha scritto che sicuramente nessuno in futuro festeggerà il decennale di "Everything Now", contrariamente a quanto accaduto per "Funeral" (2004) e "Neon Bible" (2007). Noi non coltiviamo certezze in merito, in ogni caso non saremmo così pronti a scommetterci. Intanto continuiamo a scavare con calma, strato dopo strato, alla scoperta di un disco che ha certamente ben di più da dire (e da dare) di quello che finora abbiamo ascoltato. Serve tempo e ce lo prenderemo, poi ne parleremo ancora, sempre su queste pagine. Per il "tutto adesso", qui a Loudd non siamo attrezzati.