Per chiunque si occupi di rock, in Italia, risulta difficile non dichiararsi esterofilo ed è una storia vecchia quanto il primo quarantacinque giri di Elvis Presley. E qualsiasi tentativo di riconciliazione con la madrepatria viene meno quando uno dei tuoi gruppi preferiti passa inosservato persino se un concorrente di XFactor esegue un loro brano in tv ai bootcamp (o come diavolo si chiamano) e non si scatena la caccia alla versione originale come accade, invece, per un Samuele Bersani qualunque. Una talentuosa band di ragazzini, peraltro poi eliminata d'emblée, ha proposto in una maniera filologicamente ineccepibile, nel corso di una puntata di qualche settimana fa, “Number” dei Foals senza che nessuno ne desse il meritato risalto. Nell’ultima vacanza che ho trascorso in UK, un paio di anni orsono e ad altrettanti di distanza da “What Went Down” che, allora, era l’ultimo album uscito della band di Philippakis, i Foals capitava invece di sentirli persino alle radio diffuse nei negozi di abbigliamento, con il personale che li canticchiava a tempo mettendo al loro posto sullo scaffale i capi abbandonati nei salottini di prova.
Chissà che le cose non cambino con la doppietta messa a segno quest’anno. Dare alle stampe un album in due parti come “Everything Not Saved Will Be Lost”, la prima a distanza di pochi mesi dalla seconda, la dice lunga sullo stato di salute compositiva del gruppo, malgrado il recente forfait di Walter Gervers, bassista e padre fondatore della band. Un successo che comunque ha radici antiche. I Foals sono la più convincente realtà indie inglese almeno da quando il loro math rock iper-quantizzato degli esordi si è fatto più energico, più cupo, più elettronico, più elaborato e, soprattutto, meno rigoroso.
In ogni album dei Foals (“Antidotes” a parte, ve lo concedo) la gamma dei generi musicali è sempre amplissima. Si va dal più moderno post-punk a certe trovate pop che rimandano addirittura ai Maroon 5 o a quel modo distratto, decisamente indie, di fare della musica da ballo dalle reminiscenze tropicali, con l’uso ironico e casuale di percussioni degno di un “Disco samba” d’altri tempi. C’è il punk-funk scanzonato che si alterna all’introspezione, appartenenza subito sconfessata da violente incursioni nell’alternative rock. Un sound così ricco di suoni e una perfezione tecnica da varcare talvolta il limite del progressive, per qualche sconfinamento in quella zona promiscua dove pop e barocchismo elettronico consentono la fioritura di un ambiente in cui i mostri sacri della musica colta - quelli che si sono rovinati di seghe virtuosistiche accompagnate da improbabili falsetti alla Yes - vanno a prendersi una boccata d’aria dopo estenuanti esecuzioni di ritmi dispari guidate dal click.
Restano inalterate alcune costanti. L’inconfondibile incrocio di chitarre di Jimmy Smith e Yannis Philippakis, sia nei raddoppi distorti all’unisono a ricalcare il basso che nelle ritmiche pulite monofoniche che nascono dai riff (le note iniziali di “Wash Off”, per capirci). Il registro abrasivo spalmato in abbondanza su ogni brano il cui attrito, traccia dopo traccia, porta all’usura dei timpani. Le impeccabili trovate ritmiche di Jack Bevan alla batteria, una vera macchina da ritmo al pari di una drum machine. L’uso modernissimo ma tutt’altro che modaiolo dei synth di Edwin Congreave. Fino al timbro della voce solista di Philippakis, il vero marchio di fabbrica, la costante che conferisce ai Foals quella nota di amarezza che piace tanto ai fan della musica deprimente, il genere più di ogni altro senza tempo.
Resta il punto interrogativo sul perché dividere un concept artistico in due volumi. Un solo album sarebbe risultato prolisso? Ma poi chi se ne importa. Meglio così. La musica dei Foals è talmente ricca e densa che un doppio di venti canzoni avrebbe reso impegnativo un ascolto completo dall’inizio alla fine, ai tempi degli skip illimitati messi a disposizione dagli account premium di Spotify.
Ogni canzone, anche in “Everything Not Saved Will Be Lost – Part 2” è un concentrato di strati, da quelli portanti melodico-armonici a quelli periferici dei dettagli e delle parti accessorie, per una gravità da record. Senza contare l’abitudine di forzare verso minutaggi all’eccesso la natura di ciascuna canzone, pratica che, quando è eseguita con maestria - ed è il caso dei Foals - non genera sensi di colpa in chi si dilunga troppo con l’esperienza d’ascolto. Brani come “Black bull” e"10,000 Ft." costituiscono l’esemplificazione più eloquente di questo aspetto dell’approccio compositivo della band.
Il fatto è che anche nel secondo capitolo del dittico di “Everything Not Saved Will Be Lost” i Foals si confermano dei tipi tutt’altro che musicalmente accomodanti. In questo sequel, poi, i toni si fanno ancora più ruvidi, le voci più distorte, la tensione più alta. E anche negli episodi più ammiccanti, a partire dal singolo “The Runner”, è chiaro che c’è una componente irrisolta che impedisce alla band di abbandonarsi al pop. La parte due di “Everything Not Saved Will Be Lost” ci restituisce il lato più aggressivo dei Foals. Anche la ballad “Into The Surf” compromette l’intento di dare una lettura benefica dell’album. Laddove manca la spinta subentra la malinconia più profonda a cui la traccia seguente e conclusiva, “Neptune”, collabora per conferire il colpo di grazia con i suoi dieci minuti e rotti di crescendo emotivo.
I Foals, purtroppo, ci hanno abituati a tempi eterni tra un album e quello successivo. Ma questa botta da venti canzoni - un nuovo capolavoro a tutti gli effetti - ci fa presumere che l’onda di “Everything Not Saved Will Be Lost” parti 1 e 2 sarà lunga, ricca di estratti, live e remix. Ci sarà quindi moltissimo materiale e numerose occasioni per ingannare il più possibile l’attesa prima della pubblicazione del loro prossimo disco.