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TRACKSSOUNDIAMOLE ANCORA
Everything Means Nothing To Me
Elliott Smith
2000  (DreamWorks Records)
AMERICANA/FOLK/SONGWRITER
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27/05/2019
Elliott Smith
Everything Means Nothing To Me
Una canzone che vela con i tenui colori del pop un paesaggio in realtà carico di profonda inquietudine e ancestrale angoscia

Non sono pochi coloro che cercano nella musica il senso di un'esistenza precaria, qualcosa che consenta loro di superare una congenita inadeguatezza al mondo e di trovare la forza per non soccombere nella battaglia con i piccoli grandi eventi della quotidianità. Ci sono persone che hanno un destino irrimediabilmente segnato e provano a cambiarlo attraverso le canzoni. Ascoltandole oppure scrivendole.

Il mondo è pieno di musicisti tristi che amano gli accordi in minore e spartiti in odore di disperazione, che scavano con le unghie lo sprofondo della propria creatività per trovare melodie che giustifichino in qualche modo il loro essere in vita, il dolore immenso di non voler essere vivi o quello di volerlo essere di più.

Fragili e irrequieti, si aggirano come immagini diafane ed inafferrabili in un immaginario collettivo musicale col quale non hanno nulla a cui spartire. Sono personaggi loro malgrado, icone di un dandysmo involontario che alimenta schiere di emulatori della malinconia. In balia dell’esistenza, schiavi delle dipendenze, vittime di un dolore ineluttabile che li divora, finiscono per essere veri solo nelle canzoni che scrivono. Si aggrappano alla musica per restare a galla, ma alla fine, irrimediabilmente, il vortice dell’esistenza li risucchia. E se ne vanno per sempre, lasciandoci nel dubbio che forse avrebbero preferito un’esistenza appagante o anche briciole di felicità piuttosto che aver scritto nel tormento qualche grande canzone.

Basta sfogliare un qualsiasi manuale di storia della musica per rendersi conto di quanto questa sia stata costellata di magnifici perdenti. Charlie Parker, che suonava mille note al minuto per non farsi bruciare sul tempo dall’eroina; Kurt Cobain, che pensava fosse meglio “bruciare in fretta che spegnersi lentamente“; Nick Drake, menestrello dolcissimo ma troppo instabile anche solo per affrontare un pubblico e cantare dal vivo le proprie delicate perle di intimismo; Tim Buckley, e poi suo figlio Jeff, che la morte non se la son data, ma in qualche strano modo l'hanno cercata, auspicata e alla fine trovata, l’uno nell’eroina e l’altro nei gorghi famelici del Mississippi.

E poi, Elliott Smith, distante anni luce dallo star system, solo, fragile, insicuro. Smith, il classico ragazzo della porta accanto, arruffato e sgualcito, educato e gentile, ma tanto schivo da mettere in imbarazzo anche chi lo conosceva bene. Smith era un nessuno fin dal cognome, così mediocre e dimesso nell’aspetto da essere scambiato per un fattorino, nella stessa casa discografica che l’aveva messo sotto contratto. Grande musicista ma uomo invisibile, non resse il peso di una vita disordinata, vissuta in balia della droga e dell’alcol, e tanto meno resse il peso di una popolarità che, seppur tardiva, lo portò agli onori delle cronache per la sua partecipazione alla colonna sonora di "Will Hunting – Genio Ribelle ".

Fu soprattutto il male di vivere a ucciderlo, una disperazione così profonda e radicata (il divorzio dei genitori, le violenze subite dal patrigno), che se da un lato era l’abbrivio per comporre melodie tanto struggenti, dall’altro minò progressivamente l’equilibrio psicofisico del cantautore, già reso precario dall’abuso di eroina.

Quantunque vi sia ancora un alone di mistero sui fatti che condussero al suo decesso, le cronache raccontano che Smith se ne è andato nel modo più cruento possibile, pugnalandosi il petto, fino a trovare, dritto nel cuore, il fendente fatale. Bisogna odiarsi tanto per uccidersi così, provare ribrezzo verso sé stessi, desiderare di cancellarsi per sempre dalla faccia della terra. Non un vero e proprio suicidio, ma qualcosa di più; non solo trafiggere un corpo con la lama, ma cercare l'anima e cancellarla.

Al momento della pubblicazione di Figure 8, l'ultimo rilasciato in vita prima di una lunga serie di album postumi, forse si poteva già intuire qualcosa del dramma che si sarebbe verificato tre anni dopo (il brano conclusivo, tra l’altro, si intitola profeticamente Bye). Eppure il fascino della musica, la perfezione delle composizioni, la delicatezza degli arrangiamenti, velano la tragedia imminente, la nascondono, e ci consegnano solo il miracolo di sedici canzoni di mirabile fattura.

Registrato in parte presso gli Abbey Road di Londra (dove Smith realizzò il sogno di suonare il piano che fu di Paul McCartney), Figure 8 procede per quadretti deliziosamente pop e solo apparentemente minimalisti (parte della critica lo ritiene un lavoro meno brillante di altri proprio perché privo dell’immediatezza dei dischi precedenti). C’è qui una maturità e un’eleganza negli arrangiamenti grazie alla quale Smith si affranca dagli standard del folk acustico, per realizzare pienamente la sua idea di canzone di derivazione beatlesiana, che arricchisce però con una scrittura limpida, originale e moderna.

Fra le tante belle canzoni, è forse il delicato intimismo di Everything Means Nothing To Me a balzare subito all’occhio fin dal titolo: un’esplicita dichiarazione di non appartenenza a questo mondo, la presa di coscienza di un uomo che conosce il pane duro della solitudine e che sa che il suo tempo su questa terra sta volgendo al termine. Una canzone che vela con i tenui colori del pop un paesaggio in realtà carico di profonda inquietudine e ancestrale angoscia.


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