Non dovrebbe essere così ma è abbastanza normale che quando un grosso nome fa uscire un disco, si discuta molto di più del nome in sé piuttosto che dell’effettivo valore del disco in questione. È andata ancora peggio a Taylor Swift, nel momento in cui ha deciso di collaborare con Aaron Dessner nella scrittura e ha realizzato un brano con Bon Iver. L’ingresso nel gotha dell’Alternative Rock da parte di un’artista che in precedenza aveva al massimo lavorato con Gary Lightbody degli Snowpatrol, ha ovviamente innescato tutta una discussione tra quelli che “Ha dimostrato finalmente la sua qualità” e quelli che “È tutto un bluff l’ha fatto per guadagnarsi un’ulteriore fetta di mercato”.
“Folklore” ha ricevuto in generale ottime recensioni ma l’impressione che sia stato un album divisivo è forte, soprattutto ad osservare l’attività delle proprie bolle Social. Ora, a cinque mesi di distanza e totalmente a sorpresa, è arrivato “Evermore”. Che vuol dire un’infornata di altre quindici canzoni (ma saranno due in più nella versione Deluxe non ancora uscita) per sessanta minuti buoni di musica. Il tutto quando le classifiche di fine anno sono in fase di definizione e con il precedente capitolo che, non so voi, ma io personalmente non avevo ancora assimilato a pieno. Non si fa così, Taylor.
Una mossa inusuale, in effetti, che alcuni critici si sono affrettati a collegare alla cronica assenza di live show che, a dispetto dei promoter ottimisti che annunciano date su date per il prossimo autunno, ormai sappiamo che potrebbe tranquillamente andare avanti a tempo indeterminato. Leggevo dunque delle riflessioni di questo tenore: “Non potendo andare in tour, fa uscire due album in un anno per capitalizzare le vendite e poi avrà parecchia roba nuova da suonare quando riprenderanno i concerti.”
Ok, potrebbe anche essere, dopotutto stiamo parlando dell’artista forse in assoluto più attenta alle dinamiche di mercato e allo sfruttamento della propria immagine. Detto questo, per una volta consentitemi di non essere cinico e fatemi ammettere che mi bevo la versione ufficiale: la partnership con Aaron Dessner è stata talmente soddisfacente che la Swift ha deciso di prolungarla, registrando così tanti brani che alla fine ne è uscito fuori un altro disco (“Semplicemente, non siamo riusciti a fermarci” ha scritto lei stessa nelle liner notes di questo lavoro).
Difficile dire se gli episodi di “Evermore” siano nati proprio tutti nei mesi successivi all’album precedente ma di sicuro a questo giro sono stati registrati in vere e proprie session in compagnia, da musicisti non più limitati dalle restrizioni del lockdown. La cornice è quella del Long Pond, lo studio di Aaron Dessner immortalato anche nella copertina di “Sleep Well Beast” dei suoi The National. Recentemente lo abbiamo visitato virtualmente in occasione di “The Long Pond Studio Sessions”, il documentario uscito su Disney+ che vedeva la parte principale del team creativo della Swift suonare dal vivo le canzoni di “Folklore”. Abbastanza normale dunque ipotizzare che le nuove canzoni siano, se non nate, perlomeno assemblate qui dentro e registrate poco dopo.
Trattandosi di un lavoro così potenzialmente controverso, forse è bene chiarire da che parte io stia. Personalmente non sono mai stato un fan della ragazza di West Reading, Pennsylvania; anzi, si può dire che ne abbia sempre snobbato la carriera, forse influenzato da un background che la vedeva fin troppo immersa in un mainstream plasticoso e figlio di logiche tutte sue. Ho un po’ cambiato opinione quando Ryan Adams ha registrato la sua personale (bellissima) versione di “1989” e nonostante all’epoca avessi scritto il contrario, col tempo ho imparato ad amare anche il disco originale, che è considerato all’unanimità come il suo punto artistico più alto.
Per il resto, la mia successiva frequentazione con gli altri capitoli del suo repertorio mi ha portato ad affermare che la sostanza non manca. Certo, il genere è quello lì, c’è tanto di costruito e tanto di ammiccante, sia nella declinazione Country che in quella Pop, ma la capacità come autrice è indubbia.
Ora, la domanda rimane quella di prima: la collaborazione con un musicista di alta scuola come Dessner ha avuto solo il merito di aprirle le porte di certi salotti, oppure ha sostanzialmente portato in primo piano qualità che erano presenti sin dall’inizio?
Che “Evermore” sia una sorta di gemello artistico di quello pubblicato a luglio lo si capisce innanzitutto dalla copertina, che mostra sempre l’autrice di schiena e sempre immersa in un suggestivo sfondo boschivo, sebbene qui sia maggiormente in primo piano e l’immagine sia a colori.
I contenuti sono più o meno in linea col predecessore nonostante una certa componente Country Folk sia stata recuperata molto di più in questa sede (dipenderà dal fatto che Jack Antonoff compare in qualità di coautore solo in un brano?). Sinceramente faccio fatica a dire che sia sempre lo stesso disco della Swift seppur con arrangiamenti diversi. Vero che un certo trademark nel songwriting è rimasto, vero che buona parte dei ritornelli e soprattutto l’utilizzo degli special (vedi ad esempio in “Ivy”) si ricollega al modus operandi dei primi tre dischi; vero però che anche qui c’è un certo Aaron Dessner che scrive con lei e l’impronta sua si sente eccome. Gli arrangiamenti, certo. Il sottile equilibrio tra orchestrazioni cameristiche (con una grossa mano da parte del gemello Bryce, compositore di successo, oltre che chitarrista nei The National) e tessiture elettroniche minimali ricorda a tratti quello svolto su “I Am Easy To Find” ed è splendido nella sua apparente semplicità; stessa cosa per il bilanciamento millimetrico tra la componente strumentale e le voci (tanti ospiti, anche illustri, dietro il microfono), ogni brano è cesellato al millimetro ed è impressionante la leggerezza con cui suona ciascuno di questi quindici episodi, perché poi quando si va a leggere i credits, si scopre che ci sono decine di persone implicate per ciascuno di esso (andate a sentirvi “Tolerate It” come esempio di canzone costruita alla perfezione). Si dirà che è un disco assemblato in laboratorio ma l’impressione è che sia nato dalla voglia di scrivere e di suonare insieme, se anche alla fine non fosse così, l’effetto lo avrebbero raggiunto comunque.
Altra questione, i filler. Non so, sarò eccessivamente ottimista ma per me non ce ne sono. Ci sono dei pezzi che preferisco ad altri ma di roba debole non ne vedo. È un disco che dura un’ora e nonostante col tempo sia divenuto anch’io poco paziente coi minutaggi eccessivi (per dire, già un album da quarantacinque minuti mi sembra lunghissimo, ormai) lo ascolto dall’inizio alla fine e non mi annoio. Mi era successo con “Folklore” e mi sta succedendo con questo, indubbiamente è un dato soggettivo ma se non è un’esperienza soggettiva l’ascolto, non so cos’altro possa esserlo.
Tra gli episodi più forti ci sono indubbiamente i tre che vantano un featuring d’eccezione, perché tutti e tre gli ospiti coinvolti sono stati in grado di plasmare il loro brano e di renderlo in qualche modo proprio. Abbiamo così “No Body, No Crime”, scritta interamente da Taylor ma a cui le tre sorelle HAIM (autrici anche loro di un disco superlativo, by the way) offrono un contributo efficace, a loro agio con atmosfere vicine al Country Western, per un brano che racconta la storia dal punto di vista di un’omicida che l’ha fatta franca. È un pezzo tra i più “allegri” della scaletta e gode di un ritornello assolutamente irresistibile.
I The National divengono a questo punto una presenza obbligata: “Coney Island” è uno struggente dialogo tra una coppia che ha cessato di essere tale, tra nostalgia e rimpianti per le occasioni perdute. Sullo sfondo desolato (sarà la pandemia?) di un luogo che è il simbolo stesso del divertimento a buon mercato, le voci della Swift e di Matt Berninger interagiscono alla perfezione, per un brano dalla carica emozionale altissima, al contempo un gran pezzo nel repertorio della band dell’Ohio e una delle più grandi prove di Taylor come autrice e interprete.
E non poteva mancare Justin Vernon, che in questo disco fa un po’ di tutto, presente in quasi tutte le tracce, tra cori, chitarre, pianoforti, banjo e addirittura una comparsata al triangolo. Qui co firma la title track, che arriva poco strategicamente alla fine ma che, proprio per questo, fa capire che qui ogni logica di gestione dell’ascoltatore è venuta meno: conta l’album come concept coerente, se uno degli episodi più forti sta bene in chiusura, la si mette in chiusura.
Più complessa nella scrittura di quanto fosse “Exile”, “Evermore” è un’altra vetta assoluta di queste lunghe session fortunate, con Vernon che usa il vocoder come sa fare lui, per un brano essenzialmente pianistico che raggiunge il culmine nella seconda parte, con un gran lavoro sugli intrecci vocali.
Il resto, come già detto, è tutta roba buona. Ci sono alcune vicende che si incrociano, personaggi che interagiscono, che compaiono in una canzone per poi fare capolino in un’altra, a decine di minuti di distanza, sogni da inseguire e oggetti che passano di mano in mano, diventando simboli di un’intera esistenza, come in un grande romanzo americano.
La pianistica “Champagne Problems”, punteggiata leggermente dalla chitarra acustica di Dessner, vicenda di problemi mentali con la protagonista che manda all’aria un matrimonio già fissato; la gelosia di “Gold Rush”, cassa dritta e spruzzata di elettronica, che ha quell’incedere tipico dell’Alt Folk dell’ultimo decennio, caratteristica che condivide con “Ivy” e “Marjorie” (quest’ultima dedicata alla nonna materna Marjorie Finlay, scomparsa nel 2003, cantante d’opera e grande fonte d’ispirazione per la nipote); molto bella “Dorothea”, che potrebbe essere la gemella di “Betty” sul precedente disco, sia per le caratteristiche musicali sia per la storia che racconta. “Cowboy Like Me” ci sorprende un po’, non tanto per essere una prepotente escursione nel Country degli esordi (non è l’unica qui dentro) quanto per la presenza di Marcus Mumford alle backing vocal, che fa il suo senza minimamente preoccuparsi di venire annunciato.
E poi due brani come “Long Story Short”, molto più catchy e dinamica, grazie al sapiente uso dell’elettronica, e “Closure”, costruita attorno ad una drum machine di Aaron Dessner, sono due fulgidi esempi di un album che nel complesso è meno dimesso del suo predecessore e prova a giocare con sonorità più aperte, oltre a variare maggiormente le soluzioni di arrangiamento.
Arrivati a questo punto, è facile capire come la pensi. “Evermore” è il sigillo più importante della carriera di Taylor Swift, un’artista che è partita interpretando in chiave puramente mainstream un genere in voga ed è approdata ad una consapevolezza vera del suo essere autrice di canzoni. Merito di Aaron Dessner e della progressiva maturazione della sua partnership con Jack Antonoff, senza dubbio. Ma sarebbe ingeneroso non dare alla ragazza quel che è sempre stato suo e che finalmente è riuscito del tutto a venire fuori. Fosse uscito un po’ prima sarebbe finito anche questo tra i dischi dell’anno.