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REVIEWSLE RECENSIONI
04/06/2018
Calcutta
Evergreen
Che per valutare il nuovo disco di Calcutta non si possa prescindere da una discussione, più o meno pacata, sull’effettivo valore di questo artista sul mercato e sulla reale portata storica di questa nuova ondata di “Indie Pop italiano” che sembra sempre più inarrestabile, dice già molto, se non tutto, dei termini della questione.

Se il precedente “Mainstream” aveva già in qualche modo trasformato i giudizi sulla musica in un referendum sul personaggio, qui siamo decisamente oltre.

Qualche settimana fa Edoardo D’Erme si è esibito a sorpresa sul palco centrale del Mi Ami, quando era l’una e mezza inoltrata e molti (compreso il sottoscritto) se n’erano già andati a casa. Chi c’era ha raccontato cose inaudite, di un pubblico impazzito che urlava le parole delle canzoni talmente forte che in confronto un concerto di Vasco è una roba intima tra amici. Del resto, io stesso, mentre qualche ora prima attendevo l’inizio del set di Willie Peyote, ho sentito dietro di me un tizio che canticchiava il ritornello di “Hubner”, con “Evergreen” uscito da meno di 24 ore.

Qualcosa sta succedendo, è ovvio. Narra la leggenda che Bob Dylan scrisse “Blowin’ in the Wind” in pochi minuti e che già il giorno dopo il suo debutto live, al Greenwich Village c’era gente che ne cantava una parodia scurrile. Adesso me li vedo già i puristi alzare il dito e urlare: “Come ti permetti di fare simili paragoni?” ma la verità è che qui nessuno sta cercando di dire che Calcutta è il nuovo Bob Dylan, siamo seri. Piuttosto, che quando uno scrive una canzone forte, d’impatto, che funziona, lo si vede subito e lo si vede dal fatto che gli ascoltatori si dividono equamente tra chi si esalta e chi grida allo scandalo.

Di Calcutta ormai sappiamo tutto: di come, semi sconosciuto e sfigatissimo, avesse realizzato un primo disco che nessuno si è cagato. Poi il contratto con Bomba Dischi, la “cura” di Niccolò Contessa de I Cani e l’uscita di un disco, “Mainstream”, che ha collezionato lodi e insulti in parti uguali, testimoniando la capacità di portare la canzone italiana ad un livello evocativo senza precedenti.

“Evergreen” (titolo che ancora una volta gioca a scandalizzare i menzionati puristi) era probabilmente il lavoro più atteso di questo 2018 tricolore, dopo che Motta, anche lui autore di un debutto sfolgorante, ha dimostrato solo a metà di sapersi confermare a certi livelli.

“Orgasmo” e “Pesto”, i primi due brani ad essere rilasciati, ormai in rotazione da un paio di mesi almeno, mi avevano provocato reazioni da video parodistico: “Inascoltabile. Uno schifo immane. Una merda assurda.” i commenti dopo i primi ascolti. Poi, pian piano qualcosa è scattato, quel “wee deficiente” mi ha scavato nel cervello e non se n’è andato più. Mi sono stupito a canticchiarla ovunque, in qualunque situazione, anche quando ci sarebbero state cose ben più valide e profonde da ascoltare.

Ora, non voglio dire che questo sia di per sé garanzia dell’alto livello di una canzone. Ma è indubbio che la forza comunicativa c’è e non si può fare finta di niente. Se “Mainstream” aveva messo in chiaro che Calcutta era in grado di scrivere brani che fotografassero in pieno l’identità socioculturale delle nuove generazioni, utilizzando tuttavia un linguaggio vecchio come quello della canzone italiana dei nostri padri, “Evergreen” prova a ripetere quel miracolo. Riuscendoci in pieno, diciamolo subito.

Così come accaduto per i singoli, anche i primi ascolti completi del disco mi hanno lasciato un po’ freddino. Andando avanti, però, ho capito che ancora una volta non ce n’è per nessuno. Nessuno scrive come Edoardo, oggi, in Italia. E attenzione che non sto parlando di livello qualitativo, artistico, concettuale. Da quel punto di vista, “Infedele” di Colapesce è avanti anni luce e rimane al momento il mio disco italiano preferito di questi ultimi anni. Ma in quanto a capacità di sintesi, a immediatezza del linguaggio, a velocità che impiega ad “arrivare”, “Evergreen” dà la merda a tutto quanto uscito nel nostro paese negli ultimi mesi. Forse anche negli ultimi anni.

La prima cosa che si nota è che il successo, ormai quasi da Pop Star, non ha condizionato eccessivamente il suo modo di gestire il vestito delle canzoni, la loro confezione sonora. Ci sono un po’ più di orchestrazioni, qualche passaggio al pianoforte più languido che in passato, molta meno elettronica; nel complesso, però, “Evergreen” rimane un disco dimesso, minimale, arrangiato in maniera semplice (se non proprio semplicistica) e suonato e cantato senza nessuna particolare abilità; giusto in tempo per riconfigurare quel giudizio impietoso sul fatto che “questi nuovi cantautori Indie non sanno suonare e non sanno cantare”. Di queste critiche però, Calcutta se ne frega e francamente ce ne freghiamo anche noi. Il disco dura poco più di mezz’ora e ci sono nove pezzi, dieci se consideriamo l’inutile strumentale “Dateo”. Non ci sono riempitivi. Ci sono solo quelle cose che Edoardo ha ritenuto giusto inserire per far vedere a che punto del percorso è arrivato. Anche per questo ci piace: perché è un disco breve, che non chiede molto del nostro tempo ma che sa anche restituirci molto. I brani sono come al solito costruiti benissimo e dotati di melodie davvero “sempreverdi”: sono banali, già scritte forse, ma è davvero difficile smettere di cantarsele a ripetizione. Le frasi melodiche di “Kiwi”, di “Briciole”, di “Hubner”, quel tema di tre note attorno a cui ruota “Paracetamolo”, che sembra ripreso da “Trouble” dei Coldplay ma senza troppo danno, sono tutti elementi che conferiscono a questo lavoro un carattere quasi universale.

Il problema (perché un problema evidentemente esiste) è semmai la collocazione storico-temporale di un lavoro del genere, ma questa è una caratteristica che condivide con la stragrande maggioranza di ciò che va di moda al momento tra le giovani generazioni.

Lo scrissi un paio di anni fa, al tempo dell’uscita di “Mainstream”: sono canzoni riuscite, che non mi vergogno a definire belle, ma sono troppo radicate nel loro contesto. Difficile, molto difficile, avevo detto, che possano essere ascoltate tra dieci, quindici, vent’anni, senza l’ausilio di un ingente apparato di note a piè di pagina. Ho letto da qualche parte che il grosso problema della nuova canzone italiana è che i testi non plasmano più la lingua ma accade esattamente il contrario: è la lingua, in particolare quella parlata dai ragazzi, a costruire i testi. Non ricordo chi lo aveva detto ma è senza dubbio vero anche per lui: il cantautore di Latina, più che un paroliere, è un copywriter. È uno che lavora sugli slogan, che crea status di Facebook, piuttosto che testi veri e propri. “Eh, non fa niente, mi richiamerai da un Call Center”, “Oh mondo cane, tu fatti gli affari tuoi”, “Fuori è notte, mangio il buio col pesto”, fino ad arrivare ad assurdità quasi da presa per il culo come la perla di saggezza infinita che “La tachipirina 500 se ne prendi due diventa mille”; talmente una cazzata che o lo prendi a pugni o lo applaudi per mezz’ora, insomma.

C’è il solito disagio esistenziale auto compiaciuto, quella tristezza da abbandono o da crisi sentimentale che però viene esibita, con la consapevolezza che non sia una cosa così grave, che ci si possa pure divertire ad esprimere le proprie pene d’amore. C’è poi, ovviamente, l’immancabile ricorso al personaggio di culto, a quello che magari i ragazzini non sanno chi è ma che vanno a vederselo su Google e ammiccano felici; oppure che, nel caso degli adulti, provoca una reazione compiaciuta mista a stupore che fa esclamare: “Grande Calcutta! Genio totale!”. Ricordate quel pezzo di “Mainstream” coi suoi richiami a Papa Francesco e al Frosinone in serie A? Ecco, questa volta viene chiamato in causa Dario Hubner, indimenticato bomber di Brescia e Piacenza, uno dei calciatori più iconici e a suo modo affascinanti del nostro campionato. Ecco, immaginate migliaia di persone che nei mesi a venire canteranno a squarciagola: “Dovremmo tutti fare come Dario Hubner” e avrete un’idea piuttosto precisa di quel che è Calcutta oggi.

Che ha scelto, contrariamente a Tommaso Paradiso, ormai avviato decisamente verso l’universo del Pop più smaccatamente assolutista, di rimanere con la sua immagine da ragazzone romantico e un po’ sfigato, che gira per le feste, si ubriaca, conosce gente e dorme un po’ dove capita. E che tra un passo e l’altro, trova anche il modo di affinare un po’ la sua scrittura: perché “Nuda nudissima” e “Rai”, strategicamente posizionate al fondo della tracklist, denotano un’evoluzione melodica e una costruzione del pezzo che, lungi dall’essere di chissà quale sofisticatezza, non erano comunque mai state provate in precedenza e lasciano intravedere una certa voglia di non ripetere sempre le stesse cose.

Non è roba mia, questa. Non parla la mia lingua, non dice niente di quello che sono, non mi appartiene. Eppure, allo stesso tempo, non mi vergogno a dire che mi piace, che la ascolto più che volentieri. Lo ripeto: in “Evergreen” non c’è niente che già non conoscessimo, non c’è nulla che i vari Carboni, Dalla, Battisti, Rino Gaetano non abbiano già fatto migliaia di volte e soprattutto migliaia di volte meglio. Però, a costo di essere considerato monotono, a costo di essere insultato a morte dai soliti puristi di cui sopra, non ho paura di dire che dai tempi degli autori appena citati, nessuno era riuscito ad esprimere questo talento comunicativo, questa forza di musica e parole, questa ostentata sicurezza e strabordante personalità nella scrittura di un brano. Non sarò mai un fan di Calcutta e non so quanto durerà. Può anche darsi che tra cinque anni di lui non si parlerà più. Se accadrà, ce ne faremo una ragione e ammetteremo che tutto questo entusiasmo era per un fuoco di paglia. Oggi però la musica italiana passa da questo ragazzo qui e da un’altra manciata di nomi che fanno cose simili anche molto meglio di lui (Cosmo, Frah Quintale e Carl Brave sono i primi che mi vengono in mente). Ignorarlo o fingere di volerlo fare è essere in malafede, sappiatelo.