Solamente tre persone, solamente tre strumenti. Eugenio Finardi, La Voce. Calda, espressiva e matura. Dolce come un abbraccio fra amici che si rivedono dopo tanto tempo. Malinconica, specchio di ricordi di gioventù, rievocazione di un tempo passato e che mai tornerà più. Dal tono grave, memoria di qualcosa di ineluttabile, ma con la carezza della speranza. Raffaele Casarano, Il Sassofono. Afflato di vita, seducente, nostalgico. Camaleontico, languido, ora simile a un violino, ora guizzante come un pesce e pronto a cambiar vestito e spartito, a tenere il ritmo al pari di una batteria rock, effervescente e ringalluzzito. Mirko Signorile, Il pianoforte. Intrigante e vigoroso, compagno inseparabile nel disegnare nuovi paesaggi sonori. Saltellante e infine tenue, sussurrato, sognante, lacrimoso, dai tasti color nostalgia.
È ormai passato un anno da "Katia", primo singolo estratto dall’album Euphonia Suite, progetto di Eugenio Finardi in controtendenza rispetto alle mode del periodo. A un’epoca liquida e discendente, regno di grida e fragore, il cantautore risponde con silenzi e sussurri, fra note ispirate che ripercorrono i suoi grandi successi e tante, tante piccole sorprese per chi ha ancora la voglia di ascoltare un disco nella sua interezza, senza interruzioni, contraltare di una vita frenetica, sempre più portata a esteriorizzare e a dimenticare di guardarsi dentro.
I momenti tristi e inaspettati, quelli che sconquassano le certezze e non fanno dormire di notte, simili a quanto evocato nell’intensa e profetica "Mezzaluna", una delle gemme da riscoprire nella lunga carriera del rocker lombardo, sono fonte di disperazione, ma pure di ispirazione. Così, durante la pandemia, nella sosta forzata dal lockdown, è nata l’idea, è stato piantato il seme che è germogliato in un flusso musicale dal nome “Euphonia”, preso a prestito da un usignolo canterino dei Caraibi chiamato perlappunto euphonia musica, e visto da Finardi come suo alter ego in questa speciale raccolta.
Arrangiamenti azzeccati e raffinati colorano di nuove tinte diciassette brani, per l’occasione rivisitati utilizzando un ambiente volutamente minimale. I grandi successi scorrono accanto ad alcune canzoni più intime, meno conosciute, ma amate intensamente dai fan del cantautore lombardo. Non mancano composizioni autografe che si specchiano nell’amato blues, fonte di ispirazione primordiale, oltre a cover cariche di pathos scelte dal repertorio di personaggi leggendari nel panorama italiano della musica leggera, o per meglio definirla, citando proprio le parole dell’artista, «musica bella, che si differenzia dalla brutta, ho sempre odiato il termine leggera. La musica non deve essere chiamata in quel modo, ma bella o brutta».
Sfilano così, in mezzo a classici come "Diesel", scorribanda a metà strada tra rock e jazz dall’omonimo epico potentissimo disco del 1977, e a storici brani più intimistici del calibro di "Amore diverso", tenera dichiarazione di amore incondizionato alla cara figlia Elettra, le rivisitazioni dell’emozionante e taumaturgica "Oceano di silenzio", dal songbook meno conosciuto di Franco Battiato, e di "Una notte in Italia", piccolo capolavoro di un altro grande personaggio dal talento smisurato, Ivano Fossati.
Una caratteristica saliente dell’opera è la possibilità di ascoltarla come se le canzoni in scaletta fossero un tutt’uno, sia per la mancanza di pause, grazie a pianoforte e sassofono abili a insinuarsi tra le pieghe di un componimento e allacciarsi con grazia al successivo, sia per l’ordine prescelto, con le tracce pazientemente incasellate in modo perfetto, al fine di dare l’impressione di vivere l’esperienza di un concerto. Infatti si parte con la dinamica "Voglio", manifesto di intenzioni e desiderio di vivere all’insegna di rispetto, giustizia e socialità, per finire con "Extraterrestre", forse il successo più rappresentativo dal lontano, ma quanto mai attuale Blitz, 1978.
«Extraterrestre portami via, voglio tornare indietro a casa mia», canta il protagonista della storia al termine di un tormentato percorso interiore, suggerendo l’impossibilità a scappare da se stessi, ovunque si vada, fosse anche una lontana galassia. Tuttavia non sono solo le hit, scarnificate di alcuni ritmi e suoni, a brillare lo stesso di luce propria. Pure la triste "Soweto", mesta riflessione sull’incapacità dell’essere umano di vivere in pace senza guerre e discriminazioni, si eleva a lamento universale, mentre il tenero ricordo di gioventù "Katia" diventa simbolo della più sincera tenerezza.
"Holyland" e "Estrellita" provengono da uno dei dischi più sottovalutati, Anima Blues del 2005, il primo autoprodotto. Sono forse i due pezzi più significativi di quell’opera e risultano ammalianti anche in queste versioni asciutte, che danno risalto alle attitudini da cantante blues di Eugenio. Il primo ha chiare impronte gospel ed è vivacizzato dal pianoforte ansimante di un Signorile in stato di grazia; pare azzeccatissima l’idea di farlo seguire dal secondo, che sposta il mood in territori latineggianti, calpestati in maniera suadente. C’è poi spazio per una grande sorpresa, improvvisa come un temporale estivo, la tarantolata "Ambaraboogie", momento ilare presente in un altro album da rispolverare, l’intimo e sofferto Colpi di fulmine (1985), seguito meno famoso dell’imprescindibile Dal Blu, di due anni prima. Ebbene la canzone riprende vita, trascinata da un afoso “piano groove”, con il sassofono sfrontato di Casarano a rimorchio, e da impertinente filastrocca si trasforma in qualcosa di diverso, assorbendo l’atmosfera del progetto e citando la leggendaria "Hit the Road Jack" di Ray Charles.
Non mancano classici che spaccano il cuore pur se vestiti di abiti completamente diversi, solo apparentemente dimessi. La poesia di un evergreen come "Le ragazze di Osaka" gode di quest’aura a luci soffuse creata dal magico incontro tra voce, piano e sax, ma merita una menzione speciale l’arrangiamento de "La radio": con una geniale intuizione tale epica cavalcata country rock assume le sembianze di una romantica ballata. "Dolce Italia", tutto sommato, mantiene invece la struttura originaria, focalizzandosi sulle doti canore di Finardi e su quel testo lungimirante che condanna quell’America senza valori, «sempre in vendita e in paranoia» e qui si nota inoltre un piccolo, ma importante cambiamento delle liriche…non aggiungiamo altro, lasciamo agli ascoltatori più curiosi il vezzo di notare il mutamento.
"Vil Coyote" scorre agile a metà strada tra jazz e cabaret, adorabile ritratto che incornicia un perdente alla stessa stregua di un eroe e, infine, non poteva mancare un motivo fra i più rappresentativi dell’ultima produzione dell’autore milanese: "Un uomo", la cui particolarità è accentuata dall’essere l’unico componimento dell’album ricreato solo con voce e piano.
Un uomo pieno di tramonti, di stelle, di racconti e di orizzonti. Che ti guarda e dice cosa senti, come se leggesse nei tuoi sentimenti. Un uomo senza senso, anche un po' fragile ma così intenso. Con quel suo odore di fumo denso, di tabacco e vino e anche d'incenso.
Impresentabile ai tuoi genitori, così coerente anche negli errori. Proprio te che fino all'altro ieri, ti controllavi anche nei desideri.
Pochi autori sono riusciti a immedesimarsi in tal modo nell’universo femminile, rimane stupefacente come un uomo abbia saputo così bene interpretare il punto di vista e le sensazioni di una donna. Pubblicato originariamente in Occhi, lavoro controverso del 1996, "Un uomo" trova la perfetta collocazione in Euphonia Suite, un disco che invita a un viaggio dentro di noi, per “riscoprire” la bellezza di “riscoprirsi”, spalancare nuovamente il cuore ai sentimenti riposti in un cassetto dell’animo e dimenticati. Ecco diciassette canzoni chiave per riaprirlo e ricordare, sognare, sperare.