È forse troppo tardi per domandarsi per quale motivo le promesse insite nel progetto Siberia non siano state mantenute; eppure, ascoltando finalmente il debutto solista del loro cantante (solo un EP, purtroppo, ed è inevitabile un po’ di amaro in bocca dopo una così lunga attesa) certe domande riaffiorano, e con esse sembra intravedersi anche qualche risposta.
Tutti amiamo senza fine era stato un tentativo, a suo tempo giudicato più che legittimo, di raggiungere un pubblico più ampio attraverso un ammorbidimento ed una semplificazione del sound. Niente di eccessivo o di smaccatamente studiato a tavolino, il disco era bello e le canzoni erano solide, fatta eccezione per un paio di episodi un po’ troppo sdolcinati e ammiccanti alle radio. L’auspicata esplosione commerciale non c’è stata, forse ha giocato un ruolo importante anche il Covid, che non ha permesso al gruppo di svolgere un tour estivo che probabilmente gli avrebbe permesso di raccogliere di più. Fatto sta che nel giro di pochissimo tempo è finito tutto: la band si è sciolta, Eugenio Sournia, che già da prima era il principale responsabile del songwriting, si è lanciato verso la carriera solista.
Ora, io non so se davvero quel disco sia stata la pietra dello scandalo che ha rotto irrimediabilmente gli equilibri; quel che mi sembra chiaro, ascoltando queste sue prime canzoni uscite a suo nome, è che l’artista livornese abbia ritrovato tutta la sua serenità.
Sembra assurdo dirlo, al cospetto di canzoni che parlano di dolore e depressione, ricorrendo spesso ad un autobiografismo ammantato di tinte scure; eppure, è davvero forte la sensazione che, proprio lontano dalla sua band madre, lontano da un difficile gioco di pesi e contrappesi, Eugenio abbia recuperato il gusto di “scrivere” (maledizione e insieme benedizione, come dice nel brano omonimo) preoccupandosi, più che di come questo o quel brano sarà percepito da pubblico e addetti ai lavori, solo di esprimere la propria interiorità, di condividere il proprio vissuto.
È un’impressione, posso sbagliarmi. Ma è fuor di dubbio che questo EP sia decisamente più “scomodo” del lavoro precedente: c’è un recupero delle pulsazioni Wave che avvolgevano il capolavoro Si vuole scappare, c’è la lezione dei grandi cantautori, Luigi Tenco su tutti, c’è una vocalità straordinaria, per tecnica ed espressività, che qui, al servizio di una dimensione intima e personale, funziona come mai in precedenza.
E c’è poi la produzione di Emma Nolde che, dopo due dischi superlativi, certifica così una caratura artistica ben superiore alla sua giovane età. Il suo è un lavoro di sottrazione piuttosto che di aggiunta, mette in primo piano la dimensione grezza del suono (si veda soprattutto “Dignità”), lasciando la voce in primo piano e arricchendo il discreto accompagnamento strumentale con orchestrazioni leggere ed essenziali, oltre a qualche sporadico elemento elettronico.
Spogliate di ogni elemento superfluo, quel che risalta è la melodia, la capacità di Eugenio di creare composizioni ricche di pathos, di drammatica solennità e piene allo stesso tempo di un delicato e indefinibile spleen. C’è una grande cura nel gestire i crescendo, nei rapporti tra piano e forte, nell’essere sempre al centro di quel che si vuole dire, mai enfatico e mai sopra le righe.
C’è la dimensione dell’infanzia, in queste canzoni, lo sguardo a dove si è nati per ritrovare la purezza nella guerra dell’esistere (“Via Magenta”); c’è la giovinezza, col suo desiderio di essere come gli altri ma allo stesso tempo l’intuizione che la posta in gioco sia molto più alta, che ci sia molto di più da afferrare (“Superwow”). C’è poi “Scrivere”, aperta non a caso dalla voce di Ungaretti che legge “I fiumi” (poesia citata indirettamente anche ne “Il cielo”) e abitata dai grandi nomi della letteratura francese passata e presente, da Rimbaud a Houellebecq, da Baudelaire a Carrère.
“Dignità”, che è anche quella più spinta musicalmente, sembra un riassunto degli ultimi anni, oltre che una esplicita dichiarazione di poetica; “Il dolore è una porta” è l’ammissione che siamo vivi e che, per quanto possa non piacere, la sofferenza può anche essere strada e occasione di maturazione. “Il cielo” è poi il perfetto brano di chiusura, un piano e voce quasi sussurrato, vestito sonoro volutamente da demotape, che parla di accettazione, del dolore e del limite, pur nell’inseguire un orizzonte al quale volenti o nolenti tutti aneliamo.
Una prova splendida, coraggiosa e consapevole, che ha il solito difetto di essere troppo breve; confidiamo che a questo si porrà rimedio presto, comunque.