“La psicanalisi aveva insegnato a Freud che l’elemento più profondo della natura umana era formato da pulsioni, che in sé l’essere umano non era né buono né cattivo, ma buono in una relazione e cattivo in un’altra, buono in certe circostanze, cattivo in altre, che l’essere umano era innanzitutto umano, e che il pericolo è quando l’essere umano nega questa condizione di base”.
Vigdis Hjorth (Oslo, 19 luglio 1959) è autrice di moltissimi libri, ma è grazie a Eredità che ha vinto premi letterari importanti come il Norwegian Critics Prize for Literature e il Norwegian Booksellers’ Prize, affermandosi a livello mondiale come una delle scrittrici Norvegesi più note e influenti.
Eredità, dopo la sua pubblicazione, oltre a essere diventato un best seller, ha destato grande scalpore, perché la tecnica narrativa usata dalla Hjorth, quella dell’autofiction, caratterizzata dal fatto che è l’autore stesso, e in alcuni casi anche persone a lui vicine, a essere protagonista del proprio romanzo e delle vicende di fantasia in esso raccontate, ha indotto il pubblico a credere di trovarsi davanti a eventi realmente accaduti e quindi autobiografici, nonostante le continue smentite della stessa autrice.
Ma d’altro canto, quando si attinge da ciò che è reale per poi mescolarlo alla finzione, riuscire a individuare quali siano i confini dell’uno dell’altra, soprattutto se chi legge non conosce i fatti, non è semplice, così come non dev’essere piacevole ritrovarsi, in modo del tutto inconsapevole, a essere uno dei personaggi all’interno di storie che sembrano vere, ma non lo sono, o lo sono in parte. E a questo punto, pur facendo scivolare in secondo piano la questione relativa al rispetto della privacy, verrebbe spontaneo porsi delle domande di carattere etico. Una su tutte: fino a che punto è giusto spingersi con questa mistificazione della verità, pur di accontentare il lettore affamato di “realtà”, quando c’è il rischio concreto di infangare il nome e la reputazione di persone reali, attribuendogli pensieri e azioni inesistenti?
Ed è esattamente questo il caso, perché la famiglia della Hjorth non ha accolto Eredità facendo salti di gioia, anzi. Tant’è che sua madre ha minacciato di far causa a un teatro che stava mettendo in scena un adattamento dell’opera, mentre Helga, sua sorella, ha addirittura scritto un libro intitolato Free Will, per fornire al pubblico la sua versione dei fatti, con l’intento di stabilire un confine netto tra ciò che era vero e ciò che non lo era.
Pettegolezzi a parte, è indubbio che ci troviamo al cospetto di un romanzo “potente”, davanti al quale non è possibile restare indifferenti, viste le tematiche trattate e il modo in cui vengono affrontate dall’autrice.
Bergljot, protagonista e voce narrante, è una scrittrice di mezza età, divorziata e madre di tre figli ormai adulti, che da tempo ha deciso di tagliare i ponti con la sua famiglia d’origine. Quando suo padre muore, si ritrova, suo malgrado, coinvolta in una disputa per l’equa distribuzione dell’eredità. Eredità di cui a lei non importa assolutamente nulla, perché ciò che più desidera è evitare di ritrovarsi nuovamente invischiata in dinamiche familiari da cui era riuscita, con estrema difficoltà, a prendere le distanze, grazie ad anni e anni di psicanalisi. Freud e Jung, infatti, vengono citati in moltissimi passaggi del libro.
Però, dopo averci pensato a lungo, decide, seppur con grande fatica, di cedere alle insistenze del fratello Bard, l’unico nei confronti del quale sente ancora un legame affettivo sincero, che la invita a prendere posizione e a far valere quelli che sono i suoi diritti: “[…] avevo fatto il mio ingresso sul campo di battaglia. Mi sarebbe piaciuto rimanere nel bosco bianco e silenzioso […]”.
Così, dopo 23 lunghi anni, si ritrova nuovamente faccia a faccia con i suoi demoni, che riprendono vita in modo prepotente e violento, riportando alla luce tutte le circostanze che l’avevano portata ad allontanarsi dalla sua famiglia.
Bergljot è ancora fragile, certo, perché alcune ferite non smettono mai di sanguinare, rimangono carne viva per sempre, però, quei demoni ora li conosce, li ha guardati in faccia uno a uno per anni, sa come affrontarli e difendersi. Quei demoni hanno un nome: “Incesto”, o come dicono i suoi genitori, “Insesto”, “Abuso”, “Amore tradito”, “Fiducia Tradita”, “Infanzia violata”.
“Già ai tempi in cui la parola con la i veniva pronunciata con la s, si sapeva che i bambini che avevano subito quello che avevano subito potevano avere problemi nella vita, avere comportamenti promiscui, dare grande importanza alla sessualità, cominciare a bere, a drogarsi”.
Bergljot è stata abusata da suo padre quando era ancora una bambina troppo piccola per capire cosa stesse accadendo. “Lui mi toccò come un medico, lui mi toccò come un papà”. Bergljot, che aveva rimosso dalla sua memoria tutti gli abusi subiti, è cresciuta chiedendosi perché quello stesso padre, a un certo punto, dopo averle fatto credere che lei era la sua “preferita”, dopo averle dedicato tante attenzioni “particolari”, prende le distanze da lei. Il motivo è molto semplice, ma Bergljot è talmente piccola da non possedere ancora gli strumenti per capirlo. Il padre la sta punendo per essere stata una tentazione troppo forte a cui non è stato in grado di opporsi. Un comportamento che denota chiaramente come nella mente dell’uomo vi sia stato un ribaltamento dei ruoli e delle responsabilità tra vittima e carnefice: la piccola Bergljot è la vera colpevole, perché era troppo bella per riuscire a resisterle.
Ci troviamo dinnanzi a una famiglia di tipo disfunzionale, in cui ruoli e relazioni tra tutti i membri sono alterati. Sono i soldi e il potere a dettare le regole. La figura del padre è quella di un padre padrone molto ricco, da cui dipendono tutti: moglie e figli.
La moglie è una donna che si rifiuta di guardare in faccia la realtà, perché guardarla significherebbe dover mettere in discussione le scelte di un’intera vita e, di conseguenza, prendere decisioni drastiche che lei non vuole, o non è in grado di prendere. Significherebbe uscire dalla sua comfort zone costellata di bugie. Così, sceglie di vivere all’interno di una gabbia dorata, accanto a un uomo che non ama più, perché ne ama un altro, che esercita su di lei un controllo ossessivo, mettendola in condizione di vedere sua figlia non come una bambina violata nel peggiore dei modi, ma come una rivale all’interno di un triangolo amoroso. Una donna che, quando la figlia ormai adulta ricorda tutto e si rivolge a lei chiedendole aiuto, preferisce salvare le apparenze, accusandola di essere pazza, psicopatica e bugiarda. Una che dice certe cose solo per “rendersi interessante”.
Per la vittima di un abuso, non essere creduta dalle persone che considera i suoi punti di riferimento, la sua famiglia, è ancora più doloroso del trauma stesso.
Il concetto di eredità, qui, va ben oltre l’aspetto materiale. Ha un significato più profondo. L’eredità è anche quella che un genitore lascia al proprio figlio in termini di educazione, esempio, presenza e amore. È una sorta di imprinting che, ci piaccia o no, ci portiamo dentro, negli strati più profondi del nostro essere e ci accompagnerà per sempre, in molti casi, condizionando le nostre scelte, il nostro modo di vivere, di fare, di relazionarci agli altri e di essere, a nostra volta, genitori. “Forse mio padre non era mai stato felice dopo quello. Forse mio padre non era mai stato felice prima di quello. Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa aveva vissuto durante l’infanzia, forse sperava che glielo chiedessi, ma non lo feci e adesso è troppo tardi.”
Non mi addentrerò oltre nella trama di questo romanzo complesso e stratificato, in cui l’andamento non è lineare, in quanto vi sono continui salti temporali. Il presente è intervallato da ricordi del passato, attraverso cui la protagonista, pagina dopo pagina, svela lentamente l’accaduto, portando il lettore verso un’immersione totale nella storia. Le parole abbondano e in certi momenti si ripetono, ancora e ancora, fino a sembrare troppe, superflue. Ma arrivati alla fine, dopo aver letto l’ultima pagina, ci si rende conto che anche quell’esasperata ridondanza presente nella parte iniziale, era funzionale alla narrazione, indispensabile per trasmettere al lettore il peso di quei pensieri ossessivi-compulsivi, tipici di chi cerca di elaborare un trauma. Quei pensieri sono un fiume in piena, i cui argini sono talmente fragili da non riuscire a contenerli tutti. Il fiume straripa e travolge il lettore. Ci si sente stanchi, spossati e impotenti. Sommersi.
Il linguaggio della Hjorth è semplice, pulito, asciutto, universale, e sta proprio in questo la sua forza, perché risulta comprensibile a tutti, anche nelle parentesi in cui si addentra nella psicanalisi.
Eredità è un libro che afferra alla gola, che comunica cose tremende senza sconfinare mai nel patetico. Feroce e poetico allo stesso tempo.
“Il mio povero papà defunto, il mio primo e più grande amore infelice.”