Sarebbe fuori luogo chiedersi che cosa potrebbe aver provato Morrissey guardando questo film. Chiunque di noi, famoso o non famoso, sarebbe a disagio nel vedere un perfetto sconosciuto interpretarlo sullo schermo e ricreare quelle scene che lui ha vissuto in prima persona. Per quanto accurata la ricerca, per quanto fedele e appassionata la ricostruzione, non potrà mai corrispondere del tutto a quel che era avvenuto davvero. Siamo noi gli esclusivi proprietari del nostro passato. O forse no?
Ad ogni modo Mark Gill, nel suo esordio da regista, ha scelto un tema interessante: raccontare la storia di Steven, un ragazzo timido, introverso e sognatore, di intelligenza spiccata, di notevole capacità creativa e con nessuna intenzione di conformarsi agli schemi del mondo. Quel ragazzo avrebbe fondato gli Smiths assieme a Johnny Marr e avrebbe messo tutto sottosopra per qualche anno, prima che le incomprensioni tra i due e lo stress del portare avanti una realtà così complessa, mettessero la parola fine ad una delle più belle storie della musica Pop. Ma in ogni caso, da lì in avanti, Steven sarebbe semplicemente diventato Morrissey, usando come nome d’arte il cognome del padre, immigrato irlandese e figlio di una working class caparbia e arida, mai davvero capace di cogliere anche solo di striscio l'universo emotivo del figlio.
Mark Gill lo ha detto chiaramente, che non sarebbe mai stato in grado di realizzare un film su quel Morrissey, di fare un film sugli Smiths e sul loro successo. E così ha optato per raccontare la storia di un adolescente alle prese coi problemi della vita. Quei problemi che tutti noi, prima o poi, abbiamo dovuto affrontare e che sono stati condizione indispensabile per il nostro approdo all'età adulta.
Che questo ragazzo sia poi diventato un'icona mondiale della musica Rock, interessa relativamente. Certo, fornisce un'occasione per raccontare questa storia e indubbiamente tre quarti degli spettatori lo guarderanno per quello. Il finale, con Steven e Johnny che si incontrano nella cameretta del primo, lavorano separatamente alle loro idee e si trovano il giorno successivo per iniziare le prove, è decisamente ammiccante ed è fatta esclusivamente per i fan del gruppo: solo loro, infatti, potranno comprendere perché il film finisca proprio in questo modo. Ma per tutti gli altri, England is Mine rimarrà sicuramente un film godibile, che potrà essere apprezzato anche senza avere un'idea precisa di chi fossero gli Smiths.
Che poi l'opera sia soprattutto una dichiarazione d'amore di Gill a questa band, è fuor di dubbio. Lui stesso è originario di Strafford, il quartiere di Manchester dove è cresciuto il cantante e ha raccontato un aneddoto divertente di quando vide per la prima volta gli Smiths a Top of the Pops e il padre, disgustato, disse una cosa del tipo: "Quello sfigato del cantante vive nella strada accanto!" e lui rimase folgorato dallo scoprire che si poteva diventare una Rock Star anche abitando in un posto simile.
Già, Manchester. La città è ricostruita alla perfezione, con un'atmosfera cupa, a tratti squallida ma che allo stesso tempo offre la percezione di un luogo che era lì da afferrare, da usare come trampolino di lancio per chi fosse stato così coraggioso da provare. Gli Smiths non ci sono, ovviamente, così come non ci sono i loro testi; un po' perché sarebbe stato pacchiano vedere il giovane Steven scarabocchiare le parole che sarebbero poi diventate "Hand in Glove" o "This Charming Man" (ricordo che quando vidi il film di Mario Martone sulla vita di Leopardi rimasi molto a disagio nel vedere come questo espediente fosse stato utilizzato a piene mani); un po' perché il regista non ha ottenuto (o non ha chiesto) il permesso per usarle.
Ci sono però un sacco di citazioni visive, oltre ad una voce fuori campo che recita versi di Oscar Wilde o altri che potrebbe benissimo avere scritto l’aspirante artista. Ci sono le chiacchierate con Linder Sterling al cimitero, il pestaggio dei bulli alla fiera, il libro sui famosi "Moors Murder" perpetrati da Ian Brady e Myra Hindley e probabilmente altre che mi sono sfuggite. Tutte immagini che più avanti sarebbero entrate di prepotenza nelle canzoni degli Smiths.
E anche la colonna sonora deluderà chi si aspettava dosi massicce di Bowie, New York Dolls, Patti Smith, T. Rex e tutti gli altri miti musicali del giovane Moz.
È bene chiarirlo subito: questo non è un film sulla musica. Non c'è nulla sulla scena di Manchester, sull'Hacienda, sulla Factory e Tony Wilson, sui Fall, sui Buzzcocks, sui Joy Division. Queste cose accadranno dopo. E quelle che stavano già cominciando ad accadere, il regista non vuole mostrarle. Certo, c'è un accenno al famoso concerto dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall, quello del 4 giugno 1976 a cui parteciparono solo 42 persone ma da cui è incominciato tutto. E c'è la scena in cui Steven incontra di sfuggita Johnny Marr mentre attendono di entrare ad un concerto di Patti Smith (un autentico colpo da filologo, perché quello è stato effettivamente il primissimo incontro tra i due, anche se non successe nulla e per anni la cosa non ebbe un seguito). Non si vede null'altro, però. Anzi, tutte le volte in cui dovrebbe esserci del Rock a tutto volume, Gill ha fatto la scelta (bellissima, secondo me) di utilizzare quelle canzoni melodiche anni '60 cantate da quelle voci femminili che tanto piacevano alla madre e su cui il giovane Steven formò la sua sensibilità Pop. Avete presente "Work Is a Four Letter Word" di Cilla Black che anni dopo Morrissey deciderà di coverizzare, nonostante il fastidio del chitarrista? Ecco, cose così. La colonna sonora, anzi, è più improntata a questi brani, (citiamo, tra le altre, “In My Lonely Room” di Martha Reeves o “So Little Time” di Diana Dors, anche se ci sono cose più dentro il mood dell’epoca, come “This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us” degli Sparks) piuttosto che a quelle che sono state le influenze dirette del gruppo. Ed è un bene, tutto sommato. La musica si fonde alla perfezione con ciò che viene narrato ed evita il ricorso a cliché che avrebbero sicuramente banalizzato il risultato finale.
Morrissey ha sempre parlato tantissimo della sua vita privata, sin dai primi giorni del suo successo. Ha scritto anche un'autobiografia, di recente, e nel libro quel periodo è raccontato con dovizia di particolari. Quanto è però affidabile un racconto di Morrissey? Conoscendo il personaggio, sarebbe saggio dire che non bisognerebbe mai credergli fino in fondo. Per cui è naturale che, in mancanza della collaborazione del diretto interessato (che comunque non si è opposto al progetto, bisogna riconoscere che è già un successo), il regista dovesse ricorrere a tutta una serie di fonti alternative, dalle interviste rilasciate nel corso degli anni, ai racconti di amici e famigliari.
Il risultato, alla fine, è più che buono. Credo che anche i più esigenti agiografi del personaggio troveranno che tutto funziona e che tutto si trova al suo posto: c'è Anji Hardy, una delle sue prime amiche, che morirà nel 1977 anche se questo non ci viene mostrato (ma è molto toccante il modo in cui lui la ricorda nel libro), c'è ovviamente Linder Sterling, artista d'avanguardia e figura chiave della scena "alternativa" mancuniana. È stata una delle migliori amiche di Steven e i due sono legatissimi ancora oggi.
C'è poi Billy Duffy, il chitarrista che lo reclutò nei The Nosebleeds, il gruppo con cui fece i primi concerti. Ecco, la scena del suo primissimo show è l'unico spezzone veramente musicale contenuto nel film e bisogna ammettere che è molto ben riuscito.
C'è la famiglia, con la separazione dei genitori, l'affetto e la vicinanza della madre in contrasto con la durezza e la chiusura del padre, il rapporto conflittuale ma comunque tenero con la sorella maggiore.
C'è poi tutta una parte della storia che lo segue nel suo lavoro all'Agenzia delle entrate, tentativo fallimentare di inserirsi nelle strutture del mondo. È una delle parti migliori del film anche se sospetto sia quella più romanzata, non mi risulta che il diretto interessato ne abbia mai parlato molto ma è anche vero che nel suo lavoro di ricerca Gill potrebbe avere scoperto alcune delle scene che ha mostrato.
Che cosa si può dire, in definitiva, per cercare di tirare le somme? Che "England is Mine" è davvero un film riuscito, sia che ci si accosti ad esso da fanatici adepti del culto smithsiano, sia che lo si vada a vedere solo per la bella storia che racconta.
Jack Lowden nei panni del protagonista è davvero bravo (a quanto pare non sapeva se non vagamente chi fosse il personaggio che avrebbe dovuto interpretare) e credo che in fin dei conti il giovane Steven ce lo immaginassimo proprio così, coi capelli leggermente lunghi e trasandati, gli spessi occhiali da vista, la maglietta dei New York Dolls e il quaderno degli appunti eternamente tra le mani.
Anche i dialoghi sono notevoli, vivaci e in alcuni punti addirittura esilaranti, col nero sarcasmo del giovane protagonista reso proprio alla perfezione.
Alla fine, penso, questo è un film che parla soprattutto di che cosa voglia dire inseguire i propri sogni. Che a ben guardare, è proprio l'essenza del Rock: rifiutare i modelli precostituiti, essere se stessi (ma davvero però, non come frase fatta da scrivere su Facebook), credere nelle proprie capacità, non arrendersi mai, neppure di fronte alla depressione più cupa, quella che sei costretto a curare coi farmaci.
Morrissey ha fatto tutto questo e non è stato semplice, il film ce lo mostra chiaramente. Eppure, indipendentemente dall'esito, è andato fino in fondo, cosciente di avere una strada da percorrere che era stata preparata per lui. E seguendola, è diventato un uomo.