In circolazione ci sono band straordinarie che non si fila nessuno, che sono esclusivo patrimonio di un ristretto circolo di appassionati. E’ questo il caso dei britannici Crippled Black Phoenix, ensemble formatasi a Bristol nel 2004, intorno alla figura di Justin Greaves, chitarrista e padre padrone del progetto. Un combo vero e proprio, una sorta di porto di mare, che in sedici anni ha visto decine di musicisti e ospiti condividere la visione del leader, autore, peraltro, di quasi tutto il materiale della band.
Nonostante i contorni instabili entro cui lavora il gruppo, i CBP hanno pubblicato la bellezza di diciassette dischi ufficiali, tra full lenght, Ep e live, oltre ad aver autoprodotto e distribuito un numero corposo di bootleg ufficiali. Di difficile classificazione, la musica del combo ruota intorno a forti influenze post rock, plasmate però con riferimenti al post punk ottantiano e a scorci di prog rock e prog metal. Un suono unico, bizzarro e sperimentale, forse non adatto a tutti i palati, ma estremamente suggestivo e intrigante.
Ellengaest (in inglese antico, spirito forte o demonio traditore) viene pubblicato come Ep, anche se la durata (cinquantasei minuti) supera abbondantemente il minutaggio medio di un normale full length. Coadiuvati dal consueto stuolo di ospiti (Vincent Cavanagh degli Anathema, Kristian ‘Gaahl’ Espedal, l’ex bassista Ryan Patterson, Suzie Stapleton e Jonathan Hultén dei Tribulation, e Rob Al-Issa al basso), i CBP (oltre a Greaves, ci sono Belinda Kordic alla voce, Helen Stanley al piano, tastiere e tromba, Andy Taylor alla chitarra) apparecchiano otto canzoni (endtime ballads, come piace definirle a Greaves) che pur inserendosi perfettamente nella narrazione tipica della band, risultano essere meno sperimentali del solito e decisamente più accessibili. Nonostante si tratti comunque di un ascolto complesso e indigeribile ai più, alcuni episodi vestono un abito canzone oggettivamente più fruibile. City Of Love con il suo arpeggio di chitarra alla Cure e il suo incedere post punk e la conclusiva She’s In Parties, dalle oscure trame chitarristiche, che richiamano alla mente i Bauhaus, sono canzoni dritte che arrivano velocemente al traguardo.
Il resto del disco, invece, comporta un surplus di attenzione, a cagione della struttura non lineare, dell’ambientazione ossianica e di arrangiamenti spesso eccentrici e inusitati. Il disco si apre con House Of Fools ed è subito una bella mazzata: una tromba malinconica introduce una deflagrante esplosione noise, poi il brano si sviluppa tra vapori sulfurei, per arrestarsi ammaliato da scenari marziali e cinematici e quindi, esplodere nuovamente, come da migliore tradizione post rock.
Lost incede tambureggiante, immersa nell’oscurità maligna di chitarre riverberate su cui si srotola il cantato ultraterreno della Kordic. In The Night procede a tentoni in un buio spesso e nero come la pece, la voce narrante e inquietante di Gaahl, gli intrecci delle chitarre, le sospese volute oniriche che si aprono ad atmosfere pinkfloydiane spinte dall’assolo gilmouriano di Greaves.
Everything I Say è una marcia funebre per pianoforte, batteria e riverberi, che improvvisamente si attorciglia su se stessa in uno sprofondo a spirale di elettricità e tenebre. Dopo il breve intermezzo di (-), ecco comparire improvviso un dolcissimo momento di pace (The Invisible Past), un barbaglio di sole che buca l’oscurità: sono però solo pochi minuti, perché la quiete evapora inesorabilmente tra le brume sgranate e dolenti di una mestizia insondabile.
Nonostante, come si diceva, Ellengaest è probabilmente la prova meno eccentrica e audace dei CBP, questo disco resta un ascolto complicato, dovuto anche alla lunghezza media delle canzoni e a uno spleen che lascia davvero pochissimi spazi alla leggerezza. Chi, tuttavia, avrà voglia di sperimentare qualcosa di diverso, troverà in queste otto canzoni una delle esperienze più estreme e suggestive dell’anno. Consigliatissimo.