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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
10/05/2024
Live Report
Elephant Stone, 09/05/2024, Arci Bellezza, Milano
All'interno della rassegna In a State of Flux, per Psychodelice Milano, sul palco del nostro Arci Bellezza di fiducia si sono esibiti gli Elephant Stone. La band canadese, per la prima volta a Milano, ha regalato il suo meglio con jam psichedeliche che non disdegnavano di deflagrare in incendi sonori. Da risentire e rivedere.

Gli Elephant Stone fanno parte del novero di quelle band che, pur dotate di enorme talento, non sono mai riuscite ad ottenere il riconoscimento sperato, rimanendo appannaggio di una ristretta cerchia di fan. A livello puramente artistico, comunque, Back into the Dream, il disco uscito a febbraio, rappresenta un salto di qualità notevole, un livello di scrittura mai così maturo e dritto al punto, una declinazione del modello del revival psichedelico di scuola Sixties decisamente più a fuoco, per dirne una, di quanto fatto dai Tame Impala negli ultimi anni.

In Italia non passavano da parecchio e sicuramente si trattava della loro prima volta a Milano, visto che lo hanno esplicitato poco prima della fine del concerto.

La Palestra Visconti, la sala “sotterranea” dell’Arci Bellezza, sede abituale della rassegna In a State of Flux all’interno della quale è stato inserito questo appuntamento, non può dirsi esattamente gremita, ma c’è comunque un’affluenza interessante, soprattutto se si considera che non parliamo di una band di punta.

 

Si inizia poco dopo le 22, con Rishi Dhir da solo sul palco in compagnia del suo sitar, a ricamare una melodia suadente ed ipnotica, ideale introduzione alle atmosfere che domineranno di lì a poco. Raggiunto sul palco dagli altri tre, si jamma per qualche istante ancora, guidati dal tema lanciato in precedenza, dopodiché i nostri si tuffano nella vecchia “Heavy Moon”, che è anche una delle loro migliori composizioni di sempre, almeno per chi scrive. Spazio poi al nuovo disco, con le trascinanti cavalcate beatlesiane di “On Our Own” e “Lost in a Dream” e soprattutto con la mini suite “The Imajinary, Nameless Everybody in the World”, sette minuti abbondanti ricchi di temi e suggestioni differenti, probabilmente il brano più maturo della loro carriera, quello dove hanno dimostrato, se ancora ci fossero dubbi, di non avere nulla da invidiare ad act ben più blasonati.

Ritorna il sitar per “Silence Can Say So Much”, dopodiché è la volta de “La Fusée du Chagrin”, tratta dall’EP interamente cantato in francese (sono di Montreal, è ordinaria amministrazione) Le voyage de M. Lonely dans la lune, scritto nel periodo del Covid e in qualche modo metafora della situazione che si stava vivendo all’epoca, come ci ha spiegato Rishi dal palco: la storia di un uomo che, dopo che tutta l’umanità si è rinchiusa in casa, ha preso un razzo per raggiungere lo spazio, salvo poi rendersi conto che la solitudine, a cui già sulla terra si era condannato, non faceva per lui.

 

È in questo frangente che il concerto fa un salto notevole, con la band che si mette ad allungare il brano improvvisando un po’ sul giro principale, mantenendo alto il ritmo ed evidenziando quelle influenze psichedeliche che sono da sempre la loro caratteristica principale. È una soluzione che verrà adottata anche nella strumentale “Sally Go Round the Sun”, trasformata in una Jam incendiaria, inizialmente guidata dal sitar e sfociata poi in una potente deflagrazione elettrica, e nella fantastica “Don’t You Know”, unico episodio in scaletta tratto dal debutto The Seven Seas.

Sono i momenti migliori dello show, quelli in cui il gruppo mostra la migliore coesione, con la spinta del batterista Miles Dupire e gli incastri sonori tra il Synth di Stephen Venkatarangam e la chitarra di Jean-Gabriel Lambert.

Nel finale non poteva mancare una suggestiva cover di “Norvegian Wood”, ovviamente col sitar protagonista, mentre il bis prevede l’esecuzione di una lenta e onirica “A Silent Moment”, ideale congedo da un concerto veramente notevole.

 

Unico neo, il taglio di alcuni brani rispetto alla setlist che i canadesi hanno suonato nelle precedenti date del tour europeo, soprattutto perché un pezzo come “Going Underground”, col suo fantastico ritornello, avrei davvero voluto ascoltarlo.

Al di là di questi particolari, gli Elephant Stone hanno dimostrato di essere una grande band anche in sede live e meriterebbero di raccogliere molto di più sul fronte dei consensi. Speriamo di riuscire a rivederli presto dalle nostre parti.