Sono passati i tempi in cui gli Einstürzende Neubauten si portavano un martello pneumatico sul palco e distruggevano tutto all’insegna di furore iconoclastico e avanguardia rumorista. Oggi il collettivo tedesco si muove principalmente nell’ambito del cantautorato e del crooning più oscuro, gli sfoghi elettrici sono ridotti al minimo e l’aspetto Industrial, seppure mai venuto meno, è stato tuttavia incorporato nel sound attuale, tanto che nelle versioni in studio risulta spesso e volentieri in secondo piano.
Alles in Allem era uscito all’inizio del 2020, interrompendo un’assenza che durava da sei anni (da Lament, il suggestivo concept sulla Seconda guerra mondiale). Un disco ispirato e credibile che tuttavia, date le note vicende globali, non è stato possibile portare in tour.
Ci ritroviamo due anni dopo, sempre all’Alcatraz di Milano, per il primo dei tre appuntamenti nel nostro paese (Bologna e Roma le altre due tappe) ed è piacevole constatare una buona affluenza, seppure la venue sia lontana da essere gremita e l’età media ribadisca per l’ennesima volta come il ricambio generazionale sia un fenomeno pressoché impossibile per la maggioranza degli artisti.
Si inizia puntuali alle 21.15 con la nuova “Wedding”, un brano che Blixa Bargeld definirà scherzando “una canzone nuziale particolare, perché il titolo non si riferisce ad un matrimonio ma ad un quartiere di Berlino che si chiama così”. In effetti la prima cosa che si nota è la simpatia e l’ironia, a tratti nonsense, del leader. Abbandonata da tempo la chitarra, si concentra unicamente sulle parti vocali, gestendole con grande carisma e padronanza espressiva, anche con l’uso di effetti ad amplificare certe parti in cui il pitch sale notevolmente trasformandola quasi in un grido. Tra una canzone e l’altra, però, dialoga col pubblico raccontando aneddoti (come quello sul carrello da supermercato che, a suo dire, non compariva su un loro palco dal 1987, oppure quello sulla parte di Flat Cello registrata nel 1983, tenuta nel cassetto e poi recuperata più di vent’anni dopo per “Susej”) e rivelando i retroscena dietro i titoli di alcune canzoni (memorabile quello su “Tempelhof”, una delle tracce più suggestive dell’ultimo disco, ispirata ad un immaginario corridoio spazio-temporale che colleghi l’ex aeroporto di Berlino con il Pantheon di Roma; oppure, quasi a voler imitare certi strani esperimenti di Brian Eno in studio di registrazione, racconta di un complicato gioco di carte da lui inventato, usato anche in sede di composizione, che sarebbe stato alla base di “Zivilisatorisches Missgeschick”, “che dura solo quattro minuti ma contiene 17 movimenti, vediamo se li riconoscete tutti”, dice divertito, prima di passare a leggerne i titoli, tutti ovviamente di stampo concettuale).
Insomma, è evidente come sia lui oggi più che mai l’anima di questa band, vero e proprio fulcro di uno show dove gli strumenti convenzionali hanno lo spazio principale (la chitarra di Jochen Arbeit e le tastiere di Ash Wednesday disegnano la maggior parte delle melodie) ma dove gli strumenti auto costruiti utilizzati come percussioni di ogni ordine e grado, giocano sempre un ruolo importante. Difficile elencare tutto quello che si vede e che viene utilizzato, dai carrelli della spesa, alle turbine, ai tubi di metallo, ai bidoni di plastica, ai compressori, ai martelli, ma è certo che l’effetto, scenografico e sonoro, è notevolissimo. Certo, non sono più gli avanguardisti degli esordi, oggi sono più pacati, rispettosi della forma canzone e molto meno invadenti nel loro produrre rumori; eppure, vedere N.U. Unruh (vero nome Andrew Chudy) armeggiare per tutto il tempo su attrezzi improbabili, oltretutto con un look e un portamento che sono quanto di più lontano possibile da un musicista rock, è decisamente uno spettacolo che vale la pena di essere visto. Stessa cosa la si può dire per Rudolf Moser, che per gran parte dei brani ha posizionato una lamiera sul suo drum kit, a dare un’eco decisamente grezza e metallica al proprio sound.
Alles in Allem è il grande protagonista del concerto (a memoria mi pare che lo abbiano suonato tutto) e in generale non si pesca mai troppo indietro, dato che le cose più vecchie vengono da Silence is Sexy.
Mettere in risalto momenti specifici, in uno spettacolo che è andato molto vicino alla perfezione, sarebbe sminuire il resto. Personalmente ho avuto però i miei personali highlight in una “Nagorny Karabach” da lasciare col fiato sospeso, o nell’accoppiata “Die Befindlichkeit des Landes/Sonnenbarke”, che è stato anche uno dei pochi momenti in cui la chitarra ha graffiato e si è sprigionata una certa potenza sonora, seppur trattenuta e freddamente codificata. E poi i bis, che sono stati cinque e che hanno visto spiccare, oltre al singolo post ultimo disco “La Guilotine de Magritte”, una roboante “Let’s Do It a Dada”, dove sul palco è successo un po’ di tutto, tra un Chudy che faceva versi agghindato come una via di mezzo tra un mago e uno chef, e un Blixa che ha fatto girare un vinile sulla punta di un trapano; una roba da far invidia a Duchamp, insomma, in perfetta continuità col tema del brano.
Tutto questo è avvenuto alla presenza di un pubblico entusiasta e adorante, applausi scroscianti alla fine di ogni brano e silenzio rapito ad accompagnare ogni esecuzione. Ci lamentiamo della gente che parla ai concerti ma forse ci dimentichiamo un po’ troppo spesso che esistono anche artisti che sono in grado di catalizzare l’attenzione.
Aspettiamo Blixa e compagni quanto prima, con lo stato di forma che hanno adesso la voglia di rivederli è già tanta.