Bisogna dire la verità, nella sua recensione a Egypt Station su «Rolling Stone», Rob Sheffield ha toccato il punto: quanti sono gli artisti che hanno scritto la loro prima canzone nel 1956 (“I Lost My Little Gir”) e nel 2018, a settantasei anni, sono ancora in circolazione con un album ambizioso come questo? Forse solo Paul McCartney.
Figlio di James, trombettista e pianista con una discreta carriera alle spalle, Paul ha respirato e assorbito ogni tipo di musica fin dall’infanzia, rapito sia dai suoni che uscivano dalla radio a transistor del salotto di casa sia dai dischi d’importazione che i marinai americani ascoltavano nel porto di Liverpool. Pop, Folk, Jazz, Blues, Music-Hall, Rock and Roll, Rhythm and Blues e Soul sono stati per anni il pane quotidiano del McCartney adolescente. Il resto è storia: l’incontro con John Lennon nell’estate del 1957, i The Quarrymen, George Harrison, Amburgo, i The Beatles, Ringo Starr, la fine della band e l’inizio della carriera solista, i Wings, Stevie Wonder, Michael Jackson, Elvis Costello, il ritorno ai concerti, i The Fireman, la musica classica, il concerto per New York, Rihanna e Kanye West. Un percorso effettivamente senza eguali che – a differenza degli altri tre Beatles, i quali hanno concepito la loro carriera post-1970 come un hobby di lusso – ha avuto nel corso del tempo un unico costante obbiettivo: puntare a essere artisticamente rilevante e al passo con i tempi, possibilmente con un ruolo da protagonista.
Fin da quando aveva a malapena vent’anni, Paul McCartney ha tendenzialmente realizzato quattro tipi di album: quelli che ambiscono a inserirsi nel discorso musicale contemporaneo; quelli che puntano semplicemente a consolidare il proprio status di leggenda; quelli che guardano con nostalgia al passato beatlesiano; e quelli solipsistici, dove tutte le idiosincrasie del Macca autore vengono finalmente alla luce. Dell’ultima categoria appartengono senza ombra di dubbio McCartney (1970), McCartney II (1980) e Driving Rain (2001); nella terza c’è sicuramente Flaming Pie (1997, nato all’indomani del progetto The Beatles Anthology); mentre nella seconda rientrano Chaos and Creation in the Backyard (2005) e Memory Almost Full (2007). La prima categoria, invece, non a caso è la più nutrita e, assieme a Tug of War (1982), Pipes of Peace (1983), Press to Play (1986), Flowers in the Dirt (1989) e New (2013), c’è anche Egypt Station. Ma se New guardava al Pop contemporaneo con entusiasmo e una certa esuberanza, grazie alle produzioni sfavillanti di Mark Ronson e Paul Epworth, questa diciottesima prova in studio di Sir Paul, realizzata assieme a Greg Kurstin e con un cameo di Ryan Tedder, ha il suo punto di forza nella sobrietà e nel senso della misura.
Artefice del successo di 25 di Adele e al lavoro anche con Beck, Sia, Tegan and Sara, Chvrches e Foo Fighters, Greg Kurstin è il classico produttore apparentemente poco invadente che è focalizzato nel realizzare la visione dell’artista che lo ha ingaggiato piuttosto che a imporre la propria. E, come il miglior Rick Rubin degli anni Novanta, ha un grande pregio: la capacità quasi maieutica di presentare su disco la versione migliore e al contempo più classica dell’artista con il quale sta lavorando. Per cui, esclusa “Fuh You” – una trascurabile collaborazione con Ryan Tedder estranea all’economia dell’album –, Egypt Station non è nient’altro che un ottimo bignami nel quale sono riassunte tutte le tipologie di canzoni che Paul McCartney ha scritto nella sua ormai sessantennale carriera. C’è il pezzo Pop Rock sbarazzino (“Come On to Me”); la sobria ballata pianistica (“Hand in Hand” e “I Don’t Know”, che apre l’album con tre versi crepuscolari: «I got crows at my window/Dogs at my door/I don’t think I can take any more»); il pezzo pacifista un po’ qualunquista (“People Want Peace”); la canzone di protesta (“Despite Repeated Warnings”); l’acquarello acustico (“Happy with You”); la canzone Rock un po’ slabbrata (“Who Cares” e “Caesar Rock”); il pezzo sinfonico (“Do It Now”) e quello più bizzarro e giocoso (“Back in Brazil”); l’omaggio a John Lennon (“Confidante”); e la mini suite dal sapore Abbey Road (“Hunt You Down/Naked/C Link”).
Citando il principe De Curtis, «è la somma che fa il totale» e anche Egypt Station – con i suoi alti e bassi, la varietà di stili e i piccoli rischi che il McCartney autore è disposto a correre – non sfugge a questa semplice regola. Forse questo album non regalerà all’ex Beatle il singolo da Top 10 che ossessivamente rincorre dagli anni Ottanta – e che spiega la presenza in scaletta di un pezzo aggressivo come “Fuh You”, nel quale Tedder prende il sopravvento su McCartney – però dà la possibilità al suo pubblico di gustarsi sedici pezzi solidi, rotondi e di assoluta qualità. Alla fine, quello che lascia soddisfatti dopo l’ascolto di Egypt Station sono le piccole cose, disseminate qua e là tra le pieghe delle canzoni: una particolare transizione dal verso al ritornello, un determinato fraseggio, un inconfondibile fingerpicking di chitarra acustica, una linea di basso ben riuscita, una certa idea di arrangiamento che spariglia le carte. Insomma, al di là del talento innato, della capacità di scrittura e della visione artistica – cose che in Paul McCartney non hanno mai fatto difetto –, il vero punto di forza di Egypt Station è il cosiddetto mestiere, ovvero l’abilità e la sapienza accumulate in decenni di pratica. E questo conferma come lo scrivere canzoni non sia molto differente dall’artigianato, dal momento che un disco così, all’apparenza semplice, spontaneo e realizzato senza troppe sovrastrutture, in realtà è il frutto di un quotidiano e disciplinato lavoro di rifinitura.