Non era affatto previsto che andassi a vedere gli Editors a questo giro. Il fatto di avere già assistito a diversi loro live, unitamente al livello non esattamente eccelso di un disco come Violence, mi sembravano due fattori significativi da prender in considerazione. A febbraio del 2020, oltretutto, li avevo visti alle prese con un set quasi esclusivamente incentrato su rarità e vecchi classici: per me avrebbe anche potuto finire così.
Poi è successo che è uscito EBM (che sta per Electronic Body Music) e ho dovuto per forza di cose rivedere le mie priorità. Niente di trascendentale, intendiamoci, parliamo pur sempre di un gruppo che coi primi due dischi ha già detto tutto quel che doveva dire e che col terzo ha messo soltanto qualche puntino sulle i. Eppure, se consideriamo la qualità non certo eccelsa di tutto ciò che è venuto dopo (salvo solo in parte In Dream, che se non altro mostrava una certa volontà di sperimentazione e non era smaccatamente commerciale come The Weight of Your Love) il settimo lavoro della band di Birmingham potrebbe facilmente essere scambiato per un capolavoro.
Elettronica tamarra e ruffiana, Retro Industrial, il tutto messo al servizio di brani quasi tutti in cassa dritta, con un livello di scrittura finalmente degno del loro nome. Un disco che è in un certo senso il “gemello” solare di In This Light and On This Evening, che guarda agli anni ’80 in quel modo simpatico e retromaniaco già fatto proprio dagli ultimi White Lies, e che vede in Blanck Mass, qui produttore e membro aggiunto, il principale artefice di questa svolta inaspettata ma senza dubbio gradita (almeno da me, a leggere in giro l’apprezzamento è stato un po’ discontinuo).
Tutto questo per dire che, pur non essendo nei piani, sono ritornato a vedere gli Editors esclusivamente per testare la resa live di queste canzoni, visto che da una sbirciata alle setlist precedenti, avevo già verificato di non potermi aspettare sorprese.
Quando arrivo sul posto mancano una quindicina di minuti all’inizio del gruppo di supporto ed il Fabrique è ancora mezzo vuoto, cosa che a Milano è ormai un’abitudine. Non siamo quindi in molti a godere del set dei KVB. È un peccato perché il duo londinese è in giro da dieci anni e ha dato numerose prove del suo valore, l’ultima delle quali, Unity, risale ormai ad un anno fa. Sul palco si aiutano con dei visual alquanto intriganti, trasmessi da un grosso schermo televisivo posto al centro del palco, e che forniscono un vero e proprio complemento delle narrazioni musicali di volta in volta portate avanti. Electro Pop dei più classici, con la voce delicata e le tastiere di Kat Day a ricoprire il ruolo principale, la chitarra di Nicholas Wood spesso amalgamata nel suono della tastiera, da tanto è carica di effetti. Ottimo songwriting, seppure privo di sussulti, la mezz’ora che hanno a disposizione scorre piacevolissima, tra episodi in stile Dream Pop, ammiccamenti ai Chromatics e brani più scuri, debitori ai Depeche Mode periodo Some Great Reward.
Durante il cambio palco è la volta del telefonatissimo dj set di Virgin Radio, purtroppo per noi partner ufficiale dell’evento (trasmetteranno anche il concerto in diretta, ed è senza dubbio una buona notizia in vista di futuri bootleg), che con la fantasia e la cultura musicale degna del più volonteroso dei tredicenni, inanellano una serie di meravigliosi luoghi comuni quali Personal Jesus, Boys Don’t Cry e Losin’ My Religion, giusto per citare alcuni titoli. Ecco, proprio il giorno prima era uscito un lungo articolo sul Post, che cercava di spiegare il motivo per cui in Italia non abbiamo mai avuto grandi festival come Glastonbury o Primavera Sound. Se il fattore principale è da individuarsi nella mancanza di interesse e nella scarsa preparazione del pubblico, una radio del genere, normalmente l’unico nome associato nel nostro paese alla cosiddetta “musica rock”, rappresenta una parte non indifferente del problema.
Per fortuna gli orari vengono rispettati al secondo e alle 21 in punto le luci si spengono e le prime note di “Heart Attack”, opener del nuovo disco, si diffondono nell’aria. Gli Editors sono in formazione a sei, Benjamin John Power (Black Mass) in pianta stabile dietro al Synth, fondamentale assieme al tastierista Elliott Williams nell’imbastire le tessiture elettroniche dei brani. La resa sonora è ottima, la band è compatta come sempre (dal vivo sono una macchina da guerra, indipendentemente dalla qualità dei dischi che portano in giro), Tom Smith a suo agio sul palco, ottimo frontman e voce spettacolare.
Dal vivo EBM funziona benissimo. I difetti che avevamo riscontrato all’uscita (brani che vivono un po’ tutti della stessa dinamica, eccessiva lunghezza e ripetitività della maggior parte delle strutture) ci sono ancora ma l’impatto e la bellezza delle melodie sono innegabili ed anche il pubblico, fisiologicamente concentrato sui vecchi classici, non manca di applaudire, cantare i ritornelli e sottolineare con vivaci singalong alcune delle melodie portanti. Viene proposto quasi per intero (7 pezzi su 9) a dimostrazione che ci tengono, che non si tratta di un’uscita estemporanea. Tutto molto bene, dalla ruffianissima “Picturesque”, alla energica “Strawberry Lemonade”, alla più elaborata “Kiss”, fino alla conclusione di “Strange Intimacy”, che così come chiudeva il disco, chiude il set principale.
La presenza di Blanck Mass è importante e lo si vede per tutta la durata dello show: i brani di repertorio sono quasi tutti riarrangiati, per renderli in continuità con la nuova impostazione sonora della band. Sono in particolare quelli dei primi due dischi a ricevere il trattamento più drastico: le varie “All Sparks”, “Bones”, “Munich”, “Blood”, “The Racing Rats” (a questo giro sono sempre le solite, nessun ripescaggio inatteso purtroppo) non vengono modificate nelle loro linee essenziali ma hanno meno chitarre, più tastiere, e un andamento leggermente più rallentato. Chiaro che la componente Wave/Post Punk non abbia nessun senso in queste circostanze.
Per fortuna dal periodo centrale della loro discografia c’è poco: tocca come sempre sorbirci l’orrida “Magazine”, che se non altro risulterà alla fine l’unico estratto da Violence. Poi rispetto alle prime date sono state aggiunte “Frankestein” e due episodi da In Dream: la non spessissimo eseguita “All Kings”, con Tom Smith accompagnato solo da Synth e tastiere, e “No Harm”, lenta e scura, corroborata dalla chitarra sporca di Justin Lockey; pur non essendo uno dei miei pezzi preferiti devo ammettere che è una delle cose più interessanti che abbiano scritto. “Sugar” rimane altamente trascurabile, mentre la “Nothing” voce e chitarra, con Tom Smith da solo sul palco ad incantare il pubblico, è stata una delle cose più riuscite della serata e ci permette di pensare che cosa potrebbe accadere se un giorno il cantante decidesse di intraprendere un intero tour in questa veste.
Sono due ore ad alta intensità, in cui la band ha sfoderato tutta la propria esperienza e ha pienamente soddisfatto le attese di un pubblico che nel nostro paese è sempre stato particolarmente fedele. A chiudere, ovviamente, c’è “Papillon”, tra i loro pezzi più belli in assoluto, una di quelle canzoni che da sola sarebbe in grado di giudicare la carriera di qualunque band.
Bello vedere che gli Editors ci sono ancora. Se anche il prossimo disco sarà all’altezza, potremmo davvero parlare di svolta di carriera.
Photo Credit: Laura Floreani