A breve inizierà Sanremo e come più o meno sempre, da parecchi anni a questa parte, la mia agenda sarà fin troppo piena di concerti perché io possa rimanere ore intere davanti al televisore. Ascolterò i brani in gara come ho sempre fatto, la mattina successiva alla prima serata, per pura e semplice curiosità personale. Ascolterò il tutto più volte, come mia abitudine e poi, se qualcuno chiederà il mio parere (ho sempre qualche amico che non sente musica e che però, puntuale come un orologio, in quella determinata settimana dell’anno, scambiandomi per un esperto in materia, mi chiede: “Oh ma dei brani di Sanremo cosa ne pensi?”) dirò la mia: questa mi è piaciuta, questa no, perché. Poi fine, muto fino al prossimo anno, a meno che l’edizione odierna non lanci qualche disco di cui sia necessario trovarsi a parlare ancora nei mesi successivi.
Va molto di moda criticare Sanremo, tra i cosiddetti “appassionati di musica” ma anche tra certi addetti ai lavori. Bisogna farsi vedere duri e puri, recitare la parte del “Eh ma noi sì che ascoltiamo roba di qualità!” oppure, recensendo il disco o il live di turno: “Il gruppo XY suona musica vera, mica le cose finte e costruite che si sentono al festival di Sanremo!”.
Gli steccati hanno sempre rappresentato una bella sicurezza: noi da una parte, quelli buoni e giusti; gli altri, quelli brutti e cattivi, dall’altra. Anch’io mi ci sono ritrovato dentro. Anche a me piaceva recitare quella cosa lì. Peccato che avessi 16 anni ed una conoscenza della scena musicale internazionale che se arrivava a 10 band era tanto.
Solo per dire che non ho mai sopportato tutto questo snobismo. Non credo che si debba istituire una commissione culturale che ci dica cosa bisogna ascoltare e cosa no per essere considerato “uno che ci capisce di musica”. Che poi, l’ho già scritto tante volte e non voglio ripetermi, il concetto di “buona musica” è talmente vasto e difficile da definire che trovo ridicola a prescindere la teoria per cui esisterebbero dei luoghi dove questa fantomatica qualità non possa assolutamente essere trovata.
Non ho nulla contro il festival di Sanremo. Assolutamente nulla. Negli ultimi anni poi stanno pure facendo dei passi avanti: hanno capito che il target di riferimento non può più essere solo ed esclusivamente la fantomatica “casalinga di Voghera” e si stanno sempre di più aprendo a quelle realtà “giovani” che vanno dai Talent Show ai nuovi mondi della Trap e dell’It Pop. Per dire, l’anno scorso c’era Lo Stato Sociale (che si è pure piazzato tra i primi tre), quest’anno, con Motta, Zen Circus, Ghemon, Achille Lauro, Ex-Otago, Ultimo, Rancore (che non è in gara ma che ha collaborato al pezzo presentato da Daniele Silvestri) si è assistito ad un tentativo molto importante di svecchiamento del cartellone e da parte mia c’è dunque parecchia curiosità.
E poi comunque, negli anni precedenti tanti dei nomi della cosiddetta “scena alternativa rock” sono passati da lì: Afterhours, Marlene Kuntz, Bluvertigo, Perturbazione, Riccardo Sinigallia, La Sintesi… sono i primi che mi vengono in mente e ne ho sicuramente dimenticati altri.
Il problema non è la qualità musicale, dunque: negli anni hanno gareggiato canzoni belle, canzoni brutte, canzoni insignificanti, canzoni già vecchie prima di uscire, ogni tanto c’è pure stato qualche capolavoro isolato, a volte lo si è notato, altre no.
Si può ovviamente puntare il dito contro il livello bassissimo del prodotto televisivo: eccessiva lunghezza, dialoghi ridicoli, ospiti anche importanti a cui vengono chieste solo banalità insignificanti, sentimentalismo e retorica a profusione, sempre e soltanto in funzione dell’ultima trovata del politically correct, spazio dato alla musica e agli artisti in gara ridotto al minimo sindacale.
Si può tuonare contro le ingerenze di agenzie, case discografiche e management vari nella scelta degli artisti, spesso in conflitto di interesse col conduttore o direttore artistico di turno (le polemiche esplose in questi giorni su Baglioni sono le stesse, che io ricordi, che si facevano ai tempi di Carlo Conti).
Si può, dulcis in fundo, protestare che questa non è una gara, che il televoto è una farsa, che è tutto già deciso in partenza e che comunque vada, chi vince se lo dimenticano subito tutti e altri luoghi comuni di questo tipo.
Io su tutte queste cose sono d’accordo con voi, giuro. Solo che il problema di Sanremo non sta qui.
Il problema di Sanremo, sapete, quello per cui io sarei assolutamente favorevole alla sua abolizione, se mai venisse fatto un referendum in proposito, è che non è possibile che nel 2019 la musica in Italia sia ancora ferma a Sanremo.
Me lo diceva anche un noto artista di cui ovviamente non farò il nome, una volta in cui lo intervistai: “La verità è che in Italia, dopo aver fatto Sanremo, cosa ti rimane ancora da fare?”.
È questa la cosa che mi fa andar via di testa, altro che “questa non è vera musica!”. È che nel nostro paese non siamo mai riusciti a costruire un percorso di visibilità/credibilità artistica, un cursus honorum musicale che corresse parallelo al teatro Ariston e riuscisse pure a superarlo, se non a lasciarlo del tutto fuori. Non fraintendetemi: c’è tanta gente che ha avuto una carriera di successo senza mai essere passata dalla Liguria e che non si sogna di farlo neppure ora, quando potrebbe magari farsi offrire un invito da ospite speciale. Il punto però è che la manifestazione è sempre lì, sorta di pesantissimo convitato di pietra che aleggia su ogni conversazione a tema musicale, su ogni domanda che venga fatta agli artisti con un minimo di visibilità, su ogni ragionamento che si imbastisca in merito alla gestione futura della propria carriera.
In Italia siamo ancora fermi al: “Il prossimo passo sarà la partecipazione a Sanremo!” oppure: “Sei bravo? Perché non vai a Sanremo?”; o ancora: “Finché non passi da Sanremo non puoi dire di essere davvero conosciuto.”
È il semplice fatto di nominarlo, di prenderlo in considerazione, che dice della gravità del problema. È che non c’è nient’altro di più serio o di serio uguale, è che tutto confluisce lì. Continuiamo a fare gli snob, a dire che la vera musica sta da un’altra parte, che i valori reali si misurano in un altro modo ma poi siamo sempre tutti lì ad aspettare l’annuncio dei big in gara, facendo le nostre previsioni sui nomi e siamo sempre fin troppo attenti a tener presente il tema per le domande delle nostre interviste.
Mentre invece, quello che bisognerebbe fare (tutti, artisti e addetti ai lavori) è ignorarlo. Non solo non guardarlo ma, molto più banalmente, far finta che non esista. Cominciare a ragionare come se quella non fosse un’opzione percorribile, costruire dei percorsi che non portino per forza di cose lì, lavorare ad un’Italia musicale che lo faccia precipitare una volta per tutte nel campo del passatismo.
Perché il fatto che, nonostante tutto, Sanremo sia ancora vista come la manifestazione musicale più importante d’Italia, è la prova forse più eloquente del nostro cronico e a questo punto direi inguaribile provincialismo a livello musicale. Lo ha dimostrato anche il nuovo singolo griffato Calcutta/Giorgio Poi (niente di che, nonostante straveda per il secondo personaggio): passano gli anni ma siamo sempre qui a ragionare in termini di “musica italiana vs musica straniera”. Ma secondo voi in Inghilterra fanno così? Dicono: “la musica inglese e quella del resto del mondo” (ok sì, forse nel paese dei Beatles e del Brit Pop sì, può essere che lo facciano ma lì è un problema di imperialismo musicale, immagino)? E in Svezia? E in Olanda? E in Germania? Ci sarà senza dubbio dell’orgoglio per la scena nazionale, ovvio, ma dubito che la narrazione e il dibattito siano sempre ossessivamente orientati a questa contrapposizione.
E invece noi, sempre e solo Sanremo. Tutti lo schifano ma tutti lo guardano. Tutti lo sminuiscono ma poi tutti ci vogliono andare.
Soluzioni? Non credo ce ne siano. Non nell’immediato, almeno. Ma se non altro noi appassionati, ciascuno nel proprio piccolo, potremmo cominciare a farci vedere un po’ di più ai concerti (che tranne gli “eventi”, i nomi che vanno di moda e poche eccezioni, di tutto esaurito non se ne vede manco mezzo) e utilizzare le piattaforme streaming per scoprire un artista nuovo a settimana (troppo? Anche uno al mese andrebbe bene). Chissà mai che si crei un po’ di fermento, nascano nuove realtà e quella roba che succede a febbraio al Teatro Ariston venga lasciata a quelli che alla sera guardano ancora la televisione…