«Non abbiamo bisogno di presentazioni. Hey, vi diciamo noi chi siamo…siamo le tre B del Blues (Butterfield, Bloomfield e Bishop) come Bach, Beethoven e Brahms erano quelle della classica. E in più abbiamo la congiunzione, AND (Arnold, Naftalin e Davenport). Ci definiscono in tutte le maniere: blues, pop, folk rock, ma rimaniamo principalmente un gruppo blues. Ogni territorio in cui scivoliamo si trasforma in qualche maniera magicamente in blues…Siamo tutti qui per stare insieme e odiamo le presentazioni».
Nelle eccentriche note di copertina, il famoso autore e produttore Paul Nelson sceglie di scrivere un azzeccato stream of consciousness al fine di rappresentare al meglio ciò che incarna la band, una sorta di elogio alla libertà artistica e allo stesso modo un’originale dichiarazione d’amore verso il genere adorato, il blues, punto di partenza e ritorno del proprio patrimonio musicale. E la fotografia della cover accresce la voglia di definirsi in un contesto diverso, a rafforzare l’idea di un gruppo dagli orizzonti sconfinati, con lo scatto che immortala i sei membri della formazione al Museo della Scienza e dell’Industria a Chicago.
Certamente le aspettative nei confronti della Butterfield Blues Band sono alte dopo l’uscita nel 1965 del primo lavoro omonimo, in cui le sortite dell'armonica del ventitreenne Paul Butterfield danno battaglia al ritmo incalzante e potentemente amplificato della batteria, delle chitarre elettriche, di organo e basso per un’atmosfera, un sound che non hanno eguali in quell’epoca nel blues e nel jazz. East-West non subisce la “crisi del secondo disco”, come spesso capita dopo un ottimo esordio, ma anzi raffigura la precisa identità e la massima espressione di una band sempre in evoluzione, anche dal punto di vista della line-up. Il robusto e duttile Billy Davenport sostituisce Sam Lay, eccezionale batterista in difficoltà in quel frangente per un’incipiente malattia, e in futuro vi saranno illustri abbandoni e inaspettate new entry, tuttavia l’incredibile connubio venuto a formarsi tra Bloomfield e Bishop, abbinato al piano di Mark Naftalin e al basso puntuale di Jerome Arnold, assume connotati epici; inoltre, è giusto riconoscere un’estrema importanza non solo all’indiavolata french harp di Butterfield, ma pure alla sua tonalità vocale, ben adeguata per la drammatizzazione di alcuni pezzi.
Blues elettrico affilato come un rasoio, improvvisazioni di stampo jazzistico, commistioni di sonorità indiane e tracce di proto-psichedelia infiammano i nove brani, una mescolanza ben riuscita di cover, traditional e spunti autografi. Si comincia dalla muscolosa ed eccitante "Walkin’Blues", standard attribuito alla leggenda, al Re del Delta Robert Johnson, ma in realtà presente ben prima degli anni Trenta nel background musicale dell’America rurale, per proseguire su territori funk in stile New Orleans con "Get Out Of My Life, Woman", perla di Allen Touissant portata al successo da Lee Dorsey.
Dopo i due classici "I Got a Mind to Give Up Living" e "All These Blues", interpretati sia con rigore che innovazione, c’è tempo per una delle vette dell’opera, lo strumentale "Work Song", del mitico trombettista Nat Adderley. È un brano che accarezza come un velluto e corrode come un sorso di Jack Daniel’s, un esempio illustre di hard bop illuminato dagli assoli feroci e acrobatici di Bloomfield, Butterfield, Naftalin e Bishop, per otto vorticosi minuti da togliere il respiro.
Il lato B dell’LP comincia con la sorprendente "Mary, Mary", composta da Michael Nesmith, il quale di lì a poco l’avrebbe registrata con i Monkees, torna nei canoni strettamente a dodici battute in "Two Trains Running" di Muddy Waters, e si imbarca su nuove rotte in "Never Say No", dal repertorio di Percy Mayfield con Bishop riuscito vocalist, prima di svoltare nella title track, rappresentativa, già dal nome, Est-Ovest, di un incantevole intreccio. Si tratta di una cavalcata dal mood orientaleggiante strutturata in più sezioni, ognuna raffigurante uno stato d’animo, una modalità e un colore diversi, ricca di colpi di scena, di sfumature e ambientazioni ritmiche. Una vera improvvisazione di gruppo, la cui struttura è architettata dalla genialità di Bloomfield, al quale si accodano l’inventiva di Bishop e la magia dello sciamano Paul Butterfield: oltre a elargire bellissimi “solo” di armonica, il frontman di Chicago è ubiquo, suona tessiture importanti e unificanti in sottofondo, siano essi accordi, melodie, contrappunti. In composizioni di questo livello si dimostra ancora una volta la natura straordinaria della sua creatura, una band descrivibile come punto di contatto tra rock, blues, jazz e world music quando non vi erano nemmeno le coordinate per catalogare tale tipologia di sonorità in un genere così “contaminato”.
«East-West è un R?ga hippie sovrapposto a una melodia blues. C'è un groove dal suono esotico, una specie di “striptease blues”. Inoltre Bloomfield aveva preso degli acidi e ascoltava Ravi Shankar». Elvin Bishop
Questa splendida suite, come si evince dalle parole di Bishop, merita un ulteriore approfondimento tecnico per il tentativo riuscito di coniugare ed esprimere più correnti musicali orientate su strade diverse e difficilmente incrociabili. Influenzato in parte dalla musica classica indiana di Ravi Shankar e dagli esperimenti modali di John Coltrane, il mai troppo compianto Bloomfield prende a prestito una linea di basso ideata dall’amico Nick Gravenites, suo futuro compagno negli Electric Flag, e articola una jam estesa basata su scale piuttosto che su accordi. Urge rimarcare l’importanza della presenza di un batterista duttile del calibro di Davenport, in grado di contribuire non solo all’atmosfera ritmica, ma anche a molte sfumature tonali grazie a un sapiente uso dei vari tamburi e dei piatti, colpiti o accarezzati con estro da differenti tipi di spazzole e bacchette.
Sono passati quasi sessant’anni dalla realizzazione di East West, eppure ascoltare il disco rimane un’esperienza catartica, ci si commuove e stupisce per tanta magnificenza, tanto talento sotto un unico tetto, costruito con cura, abilità, esperienza, passione e innovazione da un leader rivoluzionario, ispiratore della “svolta elettrica” di Bob Dylan, e che successivamente si esibirà con tutti i più grandi, da The Band a B.B. King ed Eric Clapton.
Morto a soli 44 anni per un’accidentale overdose di droga usata per curare una micidiale peritonite, Paul Butterfield è stato probabilmente il primo autentico bluesman bianco a emergere dagli Stati Uniti. Sotto la sua tutela, la sua storica band integrata razzialmente prende per mano la forma tradizionale dei quartieri neri e la fa esplodere con il rock'n'roll elettrico, il free jazz e, mentre gli anni Sessanta scorrono, con la melodia classica orientale, come abbiamo visto anche in questo album fondamentale. Rimane un personaggio particolare, difficile da decifrare per stessa ammissione dei suoi compagni di viaggio, in continuo cambiamento nel corso delle tre decadi di attività, tuttavia sempre attenti alle idee e alla cifra stilistica del loro “comandante”. Un uomo sempre al limite, tra abusi alcolici e limiti psichici, ma acutissimo dal punto di vista artistico, senza frontiere dal punto di vista musicale.
«Uno dei migliori armonicisti in circolazione. Che tocco aveva! Poteva colpire una singola nota e farla suonare come un'intera orchestra». Levon Helm