La carriera solista di Eddie Vedder sembrava essersi arenata undici anni fa, evaporata tra i suoni di un ukulele, strumento a corda che il cantante dei Pearl Jam aveva imparato a suonare quasi per scherzo, alla fine degli anni ’90, e che era diventato, successivamente, una cosa molto seria, tanto da divenire protagonista assoluto di un intero album (Ukulele Songs). Un progetto defilato, quello, come a voler marcare la distanza dalla casa madre e da tutta quella iconografia rock, che iniziava, dopo tanti anni, ad accumulare un po' di polvere.
Sorprende, ma per altri motivi, questo nuovo Earthling, che è l’esatto opposto del suo predecessore, un album in cui il rocker torna centrale e la posizione di retroguardia svanisce in nome di un approccio decisamente più sfrontato, elettrico e, in parte, rumoroso. Un disco mainstream, si potrebbe dire, di una artista che ha passato tutta la carriera a sfuggire da questa definizione, la cui accezione, però, come in questo caso, non è necessariamente negativa. Anzi. Vedder, infatti, coagula in Earthling tutto il suo “sentire” musicale: ci sono i Pearl Jam, le ballate acustiche, che lo hanno sempre visto come interprete appassionato, ci sono quelle scazzottate punk rock innervate di rabbia che pompano adrenalina, e c’è l’omaggio ai suoi eroi musicali, qui citati con amorevole devozione (Beatles, Tom Petty, Springsteen). Un'opera mainstream, dunque, perché si rivolge a tutti gli appassionati di rock con un linguaggio universale, codificato, diretto.
Un disco confuso, ha scritto qualcuno. In realtà, no. E’ semmai il disco di un artista che, fuori dallo steccato Pearl Jam e dal processo di scrittura collettivo, ha deciso di mettere in note tutto quello che gli passava per la testa, senza calcoli e con la libertà conquistata con il suo luminoso curriculum. C’è tanta carne al fuoco, è vero, ma la cottura è da chef stellato, grazie al collante di grandi linee vocali (quell’incredibile baritono che sa di caffè nero bollente), che dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, la straordinaria caratura di uno dei vocalist tra i più grandi di sempre.
Earthling non farà la storia del 2022, certo, ma è un disco che la storia la guarda con attenzione filologica e con lo sguardo divertito di un artista che non deve dimostrare nulla e può giocare al tavolo da poker con lo sguardo sornione di chi ha le spalle coperte anche in caso di sconfitta. Una scaletta varia, dicevamo, che parte alla grande con il crescendo di "Invincible", le cui chitarre sembrano prese in prestito da "Solsbury Hill" di Peter Gabriel e la cui progressione armonica sembra creata apposta per accendere il pubblico sotto il palco, a inizio concerto. Ci sono anche canzoni che suonano esattamente come se fossero state composte per un disco dei Pearl Jam: il saliscendi emotivo di "Brother The Cloud", che travolge per quegli improvvisi slanci elettrici, o l’uno - due di "Rose Of Jericho" e "Try" (straniante e riuscitissima la presenza di Stevie Wonder all’armonica) due canzoni, che scalciano con violenza e recuperano l’energia garage rock che animava Vitalogy.
Tra ospitate importanti (il citato Wonder, Chad Smith alla batteria e Elton John a duettare in "Picture", il brano più debole in scaletta, a dire il vero), Vedder si abbandona ad afflati nostalgici, abbracciando simbolicamente i suoi eroi di sempre: la splendida "Long Way" è una ballata radiofonica che accarezza le orecchie come una canzone perduta di Tom Petty, "The Dark" è springsteeniana fino al midollo, e "Mrs. Mills", con Ringo Starr alla batteria, sembra emergere dalle trame psichedeliche di "Sgt. Pepper".
Earthling è in definitiva un disco che piacerà ai fan dei Pearl Jam, ma anche a tutti coloro che amano il classic rock, di cui Vedder è interprete a tutto tondo. Messo da parte il simpatico ukulele, il cantante dei Pearl Jam è tornato a fare quello per cui è nato, e cioè scrivere canzoni appassionate, che guardano al passato, certo, ma che sono ancora tanto vitali e scalcianti da meritarsi un posto di riguardo tra i nostri ascolti più assidui del 2022.