Entrare nel mondo degli Eels, per chi non li conoscesse ancora, significa addentrarsi in una mente, nella creatività assoluta resa disponibile da lui, Mark Oliver Everett, in arte E.
Autore, compositore e multistrumentista, da più di vent’anni ci parla di sé, delle sue contorte (e tragiche) esperienze di vita, lasciandoci assaporare quello che per lui alla resa dei conti è risultata la reazione vitale, artistica tramutata in cura per il passato e perché no, antidoto per il futuro.
Deve essere stata incredibilmente dura - e ancora appunto deve esserlo - affrontare la giovinezza facendo i conti con la scomparsa del padre (scoperta peraltro fatta da lui stesso), la convivenza con una sorella psichicamente fragile e morta sucida anni dopo che ha preceduto la scomparsa prematura della madre; eppure in questo contorno di situazione insostenibile ed irrespirabile si intuisce qualcosa di necessario ed unico che altrimenti non sarebbe percepibile da noi tutti. Una sorta di assurda redenzione di qualcosa che si tramuta in benedizione per chi l’ascolta e ne beneficia, rendendo di riflesso il protagonista arricchito da un’indispensabile sensazione di accettazione di se stesso attraverso gli altri; nel mezzo il dono, la sua musica, le sue parole.
Dopo anni di dischi crudi, indipendenti e ricchi di originalità gli Eels ci presentano quest’ultimo disco dal titolo Earth to Dora.
Sin dai primi suoni che si fanno spazio appena premuto play si respira consapevolezza, qualità e gusto. Ma anche la assoluta mancanza di fretta in attesa che ognuno si prenda i propri spazi, noi compresi.
“Anything for Boo” parte in quarta e siamo dentro una vivace e delicata canzone che pare un vero e proprio plagio di Beck di Mutations, sorprendente. Ed è ovvio che sia bella se somiglia – anche solo in un punto - a Cold Brains.
Ritmo ricco di pelli e fusti, senza charleston come piaceva a George Martin e poi ci ha ricordato Beck, per l’appunto. “Abbey Road deluxe or Lover on repeat” , dice. Ma sento anche “Indipendent of the rest_ Yet I am so dependant on you” e mi si pianta addosso chissà perché. Glockenspiel, magari carillon a scaldare le frequenze più alte coadiuvati dalle chitarre elettriche e pulite. Shaker e sabbia per tenerci a galla nel ritmo sancito e chiuso da un basso tondo e di chiara ispirazione scura e seventies. Il ride che entra sui ritornelli e sembra di sentire gli scampanellii di un ambiente rurale, o forse di un albero di Natale. Comunque c’è calore a suo modo. Ed il pezzo finisce che sembra un attimo.
“Are we alright again” con quel suo portamento beatlesiano e quella voce sporca ci conquista. Già la voce, meravigliosa, anche prima mi aveva conquistato ma non ho fatto in tempo a dirlo.
La classe di questo episodio è innegabile, la semplicità con cui la canzone nasce, cresce e matura, fino forse all’unico punto che mi fa storcere il naso, quel bridge a metà canzone prevedibile più nella scrittura e nell’armonia che nella sua postazione ovvia.
Tanti Beatles, davvero tanti finora. Ma “Man, it feels good. Birds and bees jammin_A theme for the neighborhood” e così rimane una vibrazione serena addosso.
“Who you say you are” parte con la forma di una piccola dedica, un augurio dolce e ben scritto e si radica in testa come la cosa più bella e pura arrivatami finora. Arpeggi, ritmo appena accennato, campanellini a scandire l’intercedere del dodici/ottavi, una sospensione senza pretese che diventa una base perfetta per una dedica. Per “Someone I’ll know for long_Or someone who doesn’t deserve a song”.
“Earth to Dora”, tipica title track, spacca in due questo primo tempo con la sua batteria sicura. Una ballad acustica costellata di archi e puntellata da una bella scrittura che tira su il disco e lo rimette sui giusti binari delle aspettative. C’è tanta “tipicità” fino a questo momento, tanta America. Tanti frutti dell’America che fu, mi verrebbe da dire. Buonissimi ed assolutamente maturi.
Ecco che arriva il puntinismo di Dark and Dramatic, che saltella per tutta la prima parte su un ostinato e stretto arpeggio di corde dure che non riesco a riconoscere esattamente tra una chitarra acustica o un altro strumento ferroso che comunque suona meravigliosamente e fa la canzone.
Perché sulle onde che vengono dosate dal nostro E col suo timbro ammaliante si sposano perfettamente archi, un ripetuto piatto ed un basso abbassato di ottava e simulato sintetico, come piace tanto al sottoscritto. Mi sembra che con questa alternanza di canzoni ci sia da un lato la scontatezza e forse la poca originalità che un po’ mi delude, da un altro un ovvio posizionamento nell’olimpo dei cantautori americani. Ci sento quella tipicità, è vero, ma della quale non si può fare a meno.
E mentre comincia e scorre la successiva mi immagino un luogo di raccolta dove queste frequenze possano essere a casa e vedo una sorta di paradiso di cantautori maledetti, liberi di esserlo in un piccolo anfiteatro serale e solo per loro, vedo Tom Waits che sorseggia un whiskey mentre ascolta e batte il piede. Vedo in lontananza Bob Dylan che non si fa vedere troppo perché è antipatico e non vuole apparire esattamente come gli altri. Magari Cobain, che ride mentre con una chitarra suona sopra a loro con la maestria di sembrare inopportuno salvo risultare perfetto per la quadratura del ricordo del momento. Accanto a lui c’è Syd, zitto che lo guarda con un sorriso che sta per esplodere ma che tiene per sé, mentre sembra anch’egli invaghito da questi temi. Di sicuro Michael Stipe. Insomma abbiamo capito dove siamo.
Perché qui ci porta. “Are you fucking your ex”, questo il titolo della precedente, ha proseguito il solletico fatto da “Dark and Dramatic” e lo tiene vivo, lo materializza come se fosse un carosello di passaggio tra un momento e l’altro, una di quelle canzoni che senti ad un festival e automaticamente diventano la colonna sonora, il ricordo del festival stesso. Il suono la fa da padrone con un Fender rhodes ed un basso che dialogano alla perfezione anche in maniera leggermente più ruvida del previsto e la cosa rende il tutto più realistico.
“The gentle souls” ha un vago sapore circense che si sposa alla perfezione con la copertina clownesca e mi fa pensare che in quell’immagine paradisiaca di qualche rigo fa avevo dimenticato lui, il maledetto numero uno, Jim. In effetti pare un’ispirazione felicemente Doors-iana, nelle musiche, non nelle vocalità, un brano che in Strange Days sarebbe magari stato anche bene. E che in una maniera o nell’altra ha tenuto a galla questo sapore fiabesco che mi hanno incastrato in testa.
“Of unsent letters” comincia con quel suono di chitarra arpeggiata reverberata che spalleggiata dalla giusta melodia vocale chiama John Lennon, perdonami se non ti avevo chiamato, ci sei anche tu.
Perché adesso è un posto meraviglioso questo. Archi in sottofondo ad un tema di chitarra elettrica candidano questo momento al più memorabile del disco. “Dear, long lost love_It is me”. Profondo e sospeso, che parla da sé.
Diciamo che per me il disco potrebbe finire. O almeno sarebbe la chiusura di un bellissimo ep. Forse non epocale, con qualche abito già visto e di troppo che confonde un’eventuale unica e decisa direzione di messaggio, ma con una capacità evocativa con pochi eguali.
Ed invece parte “I got hurt” con quest’organo spudorato, un ritmo serrato nei bpm e apparentemente addolcito da queste punte di basso che alle lunghe sono uno dei valori aggiunti dell’album. È un vero album di cantautorato, ecco cosa ha di improvviso e altalenante che me lo rende imprevedibile. L’interpretazione e le parole sono un valore aggiunto e camminano alla loro assopita velocità dando il colore e il significato alle parole stesse. Si respira sofferenza e risveglio, una reazione cinica e senza fronzoli, priva di ogni punta di eroismo. E questo mi è ancora più chiaro nelle chiusure dei brani, sempre affrettate, leggermente prima del dovuto, come se non si facesse in tempo ad annoiarsi – da ascoltatori – ma forse utile a comprendere la totale mancanza di orpelli e fiocchi di arrangiamento utili spesso a mascherare un messaggio già trasmesso, esaurito della forza delle parole terminate. Non c’è bisogno di fingere, sicuro, ma in questo caso sembra chiaro che E non ne abbia neanche l’energia.
Cosa che non manca in fase di scrittura, questa è la grandezza di chi è cresciuto nel vero mondo indipendente e che negli anni novanta era l’indie, fatto di ispirazioni contorte che non accontentano mai la risoluzione di quelle forme geometriche che ci si accartocciano in testa quando si compone e che si farebbe di tutto per accontentarle e immaginarsi artefici della loro tanto sospirata risoluzione.
“Ok” è questo, è semplice e diretta come una marcia funerea, ma sembra anche appartenere a due mondi distanti e ugualmente profondi come quello cantautorale delle liriche, dell’interpretazione e quello più svolazzante delle musiche libere e sbrigliate. Uno spoiler dei titolo di coda che mi sarei aspettato.
“Baby Let’s make it real” parte ed ha subito qualcosa in più, di stringente ed accattivante. Un giusto mood tra andamento ritmico incalzante, accordi, melodia vocale e arrangiamenti.
Il ritornello non mi dà l’effetto che mi aspettavo. Ma dopo la sospensione del secondo ritornello, la canzone pare decollare fino ad esaurirsi in “Waking up”, che ha il compito di mostrarci la strada verso l’uscita.
Il suono di una spenta ed intima chitarra acustica ci inchioda e decide di essere l’unico elemento ad accompagnare la voce particolarmente ispirata.
Una ballad chitarra e voce che saluta i presenti e lo fa in maniera piuttosto stanca, strizzando l’occhio a quel Johnny Cash postumo delle American Recordings, in una registrazione questa che ha tutto il sapore di una take one in diretta per entrambi gli strumenti.
Il disco è finito e non ho la totale sensazione di avere le idee chiare. Ci sono molti mondi e sensazioni distinte che convivono cibandosi dell’unico trait d’union, nella fattispecie il mondo di Mark Oliver Everett, il nostro E, vero e autentico band leader.
Ciò che mi resta addosso è una sparsa voglia di riascoltare qualcosa, dando per certo che qualcos’altro salterò. L’aspetto vincente più geniale e Beatlesiano dei primi pezzi che si è fuso con quella parentesi lisergica di metà disco rappresenta il picco globale, un dualismo che si è sposato ed ha creato un viaggio sonoro, un’autentica esperienza di cui sono capaci pochi.
Il lato più identitario e cantautorale emerso sulla coda dell’album, nonostante il picco altissimo di “Of Unsent letters” mi ha invece confuso le idee pur in tutta la sua classe e bellezza.
In tutta la mia vaga confusione una certezza ce l’ho; i testi, i mondi evocati, la purezza del messaggio hanno una forza tutta loro che conquista. E questo genere di cose se supererà la prova del tempo, potrebbero rendere Earth to Dora quel tipico disco che con gli anni acquista i propri spazi ed i solchi che lascerà lo renderanno un possibile disco epocale di un celebre cantautore americano. Quel disco che, visto dal futuro, verrà riconosciuto come il vero punto di partenza per la sua definitiva ed imminente consacrazione popolare.