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…e il naufragar m’è dolce in questo mare
OLEG E LE ARTI STRANE (Andrés Duque, 2016)
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13/03/2018
OLEG E LE ARTI STRANE (Andrés Duque, 2016)
…e il naufragar m’è dolce in questo mare
Guardare il volto di quest’uomo è come guardare una mappa: le sue rughe sono le pieghe di una storia, del vissuto di un bambino che a 7 anni suona davanti a Stalin evitando, così, la deportazione del padre nei campi di lavoro.
di Matteo Minelli/Ornella Genua

“in girum imus nocte et consumimur igni”

Palindromo attribuito a Virgilio

“La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”

(Gustav Mahler)

 

Un’immagine.

Una lunga distesa di neve, si perdono i confini tra terra e cielo.

Tutto sembra fisso e immobile, ma dato che l’essenziale è invisibile agli occhi, ecco che un puntino si focalizza nella nostra retina. Non è un’illusione: qualcosa si sta muovendo e cammina verso di noi. Le note di Johann Sebastian Bach accompagnano il lento procedere di Glenn Gould tra le nevi canadesi, fino a che il suo corpo si ferma al limitare dell’inquadratura a fissarci. “Eccomi”, pare dica il suo volto mentre ci guarda.

Il potente incipit de “32 piccoli film su Glenn Gould” (regia di François Girard, 1993) è il modo migliore per parlare di Oleg Karavaychuk, pianista russo scomparso all’età di 89 anni e, ça va sans dire, di un altro poderoso film dedicato agli artisti del pianoforte.

Non uso a caso la parola ‘artista’ perché la gestualità di Oleg ricorda, per la veemenza, quella di altri due colleghi: il primo è Jackson Pollock con il suo dripping sulla tela stesa a terra, con i suoi colpi di colore scagliati nello  ‘s p a z i o’ ; il secondo è un pittore cinese, Yan Pei Ming noto per la sua tecnica basata su gesti violenti con i quali sembra scagliare il pennello tramite un movimento del polso che invece lo trattiene, producendo un vero lancio di colore.  Lo stesso gesto, la stessa forza che viene scaricata sul pianoforte dal pianista russo.

Di Oleg mi ha subito colpito la postura: nei miei ricordi di studio ho ancora bene in mente le regole sul corretto posizionarsi, sull’altezza cui tenere il polso e le dita e sull’allineamento dell’avambraccio; nel tempo però, ho conosciuto artisti da cui ho appreso che le regole si possono anche infrangere, se si è mossi da quel fuoco che ci brucia nel nostro vagare notturno. Penso a Fazil Say, ad esempio, pianista turco: quando lo vidi la prima volta introdurre le mani nella cassa armonica del pianoforte, a percuotere o a trattenere e bloccare le corde per produrre nuove sonorità, mi disarcionò metaforicamente dallo sgabello su cui me ne stavo seduto.

Fa impressione vedere un esile uomo di 88 anni che dal fondo di un corridoio, cammina lentamente verso di noi (come l’attore che impersona Glenn Gould) e avvicinandosi sosta a guardarci e ci racconta la sua spossatezza per aver percorso la strada fino all’Hermitage camminando lungo le strade ricoperte da un alto strato di neve che lo ha costretto a sollevare molto le gambe; poi passa ad affermare l’importanza del prendersi un tempo per contemplare il panorama della Storia. Tutto questo avviene in un luogo che è Storia, l’Hermitage di San Pietroburgo, Museo-Tempio di conservazione di una delle collezioni d’arte più importanti al mondo.

 

Il panorama della Storia.

Oleg si siede davanti ad uno splendido pianoforte decorato, appartenuto allo Zar Nicola II, che lo ricevette in dono giusto un paio di settimane prima di essere ucciso, e inizia a cercare il pezzo giusto, poi lo esegue brevemente e, una volta concluso, si alza dallo sgabello sostenendo che per pensare -quindi per parlare- ha bisogno di camminare. Ecco dunque che si sposta in una zona della sala provvista di microfoni e inizia a raccontare, per poi tornare a sedersi al pianoforte e incantarci sia con i suoni, sia con i gesti.

Impossibile, almeno per me, non essere colto da un senso di vertigine pensando al tempo, alla Storia, i cui fili intrecciati riecheggiano nei ricordi che riaffiorano dai luoghi che li hanno ospitati. “Ricordo, sì io mi ricordo”: è una frase  pronunciata da Marcello Mastroianni in uno dei film di Federico Fellini. Le stesse considerazioni che un altro vecchietto ci regala, guardando fisso in macchina: il simpatico custode che introduce quello che ritengo essere l’ultimo film felliniano godibile, dal punto di vista della fruizione, vale a dire “Prova d’Orchestra” del 1979.

Con il suo vocalizzo per farci cogliere l’acustica della sala prove, siamo introdotti dal custode nel mondo dei suoni: armonie, consonanze e dissonanze (sul rapporto tra le due Oleg ci espone una sua analisi), distorsioni e movimenti del corpo chiamato ad eseguire andando a tempo.  Custodia del gesto, che il direttore d’orchestra mantiene nel condurre le famiglie dell’orchestra; gesto che non richiede necessariamente la bacchetta, bastano le mani, come sosteneva Ernest Ansermet, direttore d’orchestra svizzero, il quale sardonicamente affermava che noi italiani, per via del nostro gesticolare, siamo naturalmente portati alla direzione d’orchestra.

Le stesse mani che Oleg muove suonando nell’aria, senza strumento, come il direttore senza bacchetta. Sembra di assistere allo stato di trance di un uomo letteralmente posseduto dalla musica; stato di trance registicamente reso con molta sapienza, mediante riprese effettuate mentre probabilmente un tendone esterno al locale in cui Oleg è seduto ad un tavolo apparecchiato, (ma dove non tocca cibo, pare vivere di arte), viene mosso dal vento e proietta la sua ombra altalenante sul divanetto che ospita il corpo semiassopito del nostro pianista.

In questo modo ci viene regalata un’immagine tangibile a quella evocata dal movimento delle mani di Oleg, simile alle onde.

 

Il panorama del Mare.

Guardare il volto di quest’uomo è come guardare una mappa: le sue rughe sono le pieghe di una storia, del vissuto di un bambino che a 7 anni suona davanti a Stalin evitando, così, la deportazione del padre nei campi di lavoro. Un uomo devoto agli Zar e a Caterina, colei che diede inizio alle collezioni dell’Hermitage.

Cos’altro non è, se non un mistico, un uomo che ci parla dell’importanza che assume la maglia che si indossa quando si suona? Che ci parla dei tessuti in grado di veicolare al corpo i suoni? Perché è di questo che si tratta: di una vibrazione, di una corrispondenza tra suono e corpo che si genera da uno strumento e attraversa la materia dotata delle caratteristiche necessarie per accogliere e propagare tale vibrazione. Meravigliose in questo senso le scuse che il pianista porge alla Regina di Spagna per la mancata esibizione, quando racconta di essersi giustificato affermando che il pianoforte non era adatto. (In questo momento Arturo Benedetti Michelangeli sta esultando nei cieli). 

Rughe, segni nel tempo. Esperienza.

“L’inventario delle tue cicatrici, specialmente quelle sul viso che vedi ogni mattina quando ti guardi allo specchio del bagno per pettinarti o per farti la barba. Ci pensi raramente, ma ogni volta concludi che sono i segni della vita, che l’assortimento di linee frastagliate incise nella pelle del tuo viso sono lettere dell’alfabeto segreto che racconta la storia di chi sei, e per ogni cicatrice c’è la traccia di una ferita sanata, e ogni ferita era stata provocata da un’inattesa collisione con il mondo - cioè da un incidente, o da qualcosa che non doveva necessariamente accadere, perché un incidente per definizione è qualcosa che non doveva accadere per forza.

La contingenza opposta alla necessità, e la presa di coscienza, mentre ti guardi allo specchio stamattina, che la vita è tutta contingenza, salvo l’unico fatto necessario che prima o poi finirà. Sei senza dubbio un essere menomato e ferito, un uomo che si è portato dentro una ferita dalla nascita (altrimenti perché avresti passato la vita a sanguinare parole su una pagina?).”

Le parole di Paul Auster nel suo "Diario d'inverno", ben si adattano, soprattutto con la menzione del sangue, a quel rosso di pittura scaraventata su tela da Yan Pei Ming. Gettare, come essere gettati dentro qualcosa di più grande di noi: un colpo, una vibrazione che riecheggi nel tempo.

Cent’anni dalla Rivoluzione Russa, cent’anni dall’opera “Histoire du Soldat” composizione di un altro russo, Igor Stravinskj, che denuncia la follia della guerra con quel cupo finale di percussioni e che con quella meravigliosa suite, che comprende nientemeno che un Tango e un Ragtime, apre alla modernità. Incursioni jazz, secondo l’intuito di questo genio che dalle montagne svizzere guarderà partire il treno che riporterà in patria Lenin alle soglie di un cambiamento epocale.

Cent’anni da che ci ha lasciato un altro grande innovatore, Claude Debussy, un maestro di dissonanze. Le stesse per cui Oleg sarà tormentato dal KGB, per questo suo non voler stare alle regole. E si torna al punto di partenza: alle posture corrette, ai suoni “giusti”, alle regole e tutto quello che rischia, se ingiunto accademicamente, d’ingabbiare la libertà creatrice di un artista; ma come ricorda Oleg nel film, il punto focale riguarda la giusta alternanza di consonanze e dissonanze, pratica che ricorda essere tra i punti ragguardevoli dell’epoca Medioevale, tanto per confermare il fatto che in realtà anche gli innovatori si richiamano sempre a una tradizione, a un percorso. Poi il loro compito consiste nel rimodulare, nello smuovere la cenere, ed in questo Stravinskj fu maestro più di tutti, basti pensare al suo periodo Neoclassico che ebbe inizio con la ripresa parodica di Pergolesi.    

Forse abbiamo divagato un po’, ci siamo lasciati prendere la mano, come capitava al vecchietto del film di Fellini. Capita, quando si ha passione, quando - per tornare all’esergo iniziale - si è consumati dal fuoco!

“Basta”, esclama Oleg, in un “cut” verbale che coincide con la fine del film.

Ma noi non vogliano che finisca, che questa storia abbia termine. Vogliamo che il suono si propaghi per sempre come alla fine del capolavoro di Aleksandr Sokurov, dal titolo “Arca Russa” (stipuliamo una nuova Alleanza!), dove al termine di quell’immenso piano-sequenza lungo le sale dell’Hermitage, il viaggio ci conduce nel mare (“La Mer”, sempre per rendere omaggio ai cent’anni dalla morte di Claude Debussy) con queste parole:

“Guardi, c’è il mare tutto intorno (…) e dovremo navigare per sempre e vivere, per sempre”

Basta anche per me, allora.

Posto di fronte a questa immensità: “What else should I write? I don’t have the right” (“All Apologies”, Kurt Cobain,)