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REVIEWSLE RECENSIONI
31/10/2023
Cultus Sanguine
Dust Once Alive
I Cultus Sanguine tornano dopo ventiquattro anni per portare di nuovo alta la bandiera del Death Metal, del Gothic e del Doom. "Dust Once Alive" è un ritorno sorprendente, dove ogni singolo episodio costituisce un tassello che contribuisce ad un quadro generale di sublime bellezza.

A distanza di qualche anno dall’annuncio della reunion, concretizzatasi in alcune date live, il ritorno dei Cultus Sanguine acquista finalmente la forma del disco in studio, che arriva ventiquattro anni dopo The Sum of All Fears.

Nella seconda metà degli anni ’90 la band milanese è stata, nonostante la dimensione di culto, una delle principali interpreti di quel sound, a metà tra il Death Metal e il Gothic, che in mille declinazioni e sfumature diverse aveva reso celebri act come Paradise Lost, Anathema, Tiamat, Amorphis, Moonspell, ed altri che non avrebbero avuto la stessa fortuna commerciale, come Darkseed, Paramecium, Lord Belial e tanti altri. Non un genere preciso (i nomi citati, se analizzati nello specifico, avevano ben poco in comune) piuttosto un modus operandi: contaminare l’originaria matrice estrema con inserti melodici di varia provenienza, e lavorare sull’ottenuto effetto di contrasto.

A ben vedere, i Cultus Sanguine hanno sempre insistito di più sulla componente estrema, al contrario di molti dei nomi sopracitati, che nel corso degli anni si sarebbero anche, temporaneamente o in maniera definitiva, allontanati dall’universo Metal. Quel che maggiormente sorprende, di questo come back, è la sua straordinaria aderenza alla dimensione originaria del gruppo: dall’ultimo disco è trascorso un tempo che equivale ad un’intera carriera, eppure è come non fosse passato neppure un anno.

 

Incentrato (come facile capire già dal titolo) sulla dimensione tragica della vita, tra la mortalità inesorabile e la sostanziale inutilità degli obiettivi mondani, Dust Once Alive si configura come l’ideale prosecuzione del lavoro precedente, riproponendo da un lato lo stesso modello di songwriting da sempre associato al gruppo, dall’altro una freschezza nel proporre le idee ed un lavoro di produzione che lo rende comunque al passo coi tempi.

Registrato all’ADSR Studio da Carlo Meroni, masterizzato al Moonhouse di Milano, il disco conferma la propensione del gruppo ad uscire per etichette straniere (in passato hanno pubblicato per nomi storici come Peaceville e Season of Mist), visto che viene rilasciato dalla BadMoonBadMusic, una divisione della label russa Solitude Productions (speriamo che, con l’aria che tira, una decisione del genere non costi qualche copia in meno).

La line up è quella storica (l’unico nuovo inserto è il bassista Luca Difato) ed è in grande spolvero, con la voce di Joe Ferraro a guidare le danze, intensa ed espressiva e come sempre straordinariamente versatile nel passaggio dal Growl allo Scream, alle tonalità pulite e a quelle maggiormente declamate.

 

L’iniziale “Facing Vulture Season” è anche una delle poche concessioni alla velocità, all’interno di un lavoro improntato a ritmi lenti, in pieno stile Doom. Interessante l’uso della tastiera a ricamare melodie sotto la ritmica, nonché il modo con cui giocano con gli stacchi, inserti gotici che ricordano molto le atmosfere teatrali di Arcturus e Cradle of Filth.

Formula ripetuta nella title track, che è però più cadenzata, un Gothic Doom da manuale con un uso lineare ed efficace delle tastiere e, questo è una caratteristica in comune con tutti gli altri brani, costruita in modo intelligente, nel dosaggio tra parti melodiche, accelerazioni improvvise, mid tempo marziali e break orchestrali.

Splendida anche “Sister Solitude Saves”, lenta e magniloquente, con una parte vocale che la rende particolarmente sofferta, una coda strumentale con un organo in evidenza, quasi a richiamare una marcia funebre.

 

Nella consapevolezza che ogni singolo episodio costituisce un tassello che contribuisce ad un quadro generale di sublime bellezza, vale comunque la pena nominare “Delusion of Grandeur”, nella quale compaiono atmosfere epiche ed un certo gusto Melodic Death tipico della scuola di Göteborg; oppure “The Greatest of Nothing”, tra le composizioni più lunghe, cambi di atmosfere e velocità, una parte centrale che è quasi Black Metal e che sconfina in un uso molto maideniano della chitarra solista (alla metà degli anni ’90 lo facevano in molti, In Flames su tutti). E poi occorre menzionare “Gli uomini vuoti”, il pezzo più Doom Oriented dell’intero disco ed anche l’unico cantato in italiano, con un testo ispirato alla omonima poesia di T.S. Eliot che si adatta perfettamente al concept generale delle liriche.

Un ritorno sorprendente, figlio di un’epoca passata ma anche straordinariamente attuale, la dimostrazione che di un suono così c’è ancora bisogno. Reunion coerente e sensata, non importa che sia passato così tanto, se una band ha le idee chiare al punto da tirar fuori un disco così, vale la pena aspettare.