Ammetto, nel terminare la visione di Dune: Part one, di aver pensato qualcosa del tipo: "ok, forse Dune non è proprio la mia tazza di te" (it's not my cup of tea, per chi non conoscesse l'espressione numerose sono le spiegazioni in rete).
Premetto che chi scrive è a digiuno dell'opera letteraria di Frank Herbert universalmente riconosciuta come una delle letture fondamentali nell'ambito della fantascienza e più in generale in quello della creazione di mondi fittizi e complessi, in questo paragonata addirittura all'opera di Tolkien. Ne consegue quindi che non sarà qui possibile accostare l'opera letteraria al lavoro improbo ed enorme di cui si è caricato il regista canadese Denis Villeneuve decidendo di portarne sugli schermi una nuova trasposizione.
E già, una nuova trasposizione. Perché sono almeno due, e illustrissimi, i precedenti tentativi di portare al cinema le beghe interplanetarie dell'Impero e dei ribelli Fremen, della casata Harkonnen e di quella degli Atreides; il primo completamente naufragato, il secondo quantomeno poco (pochissimo?) riuscito, questo nonostante i due tentativi succitati portassero rispettivamente le firme niente meno che di Alejandro Jodorowski (che non trovò mai produttori disposti a finanziargli il film) e di David Lynch (qui la nostra recensione) che, costretto a condensare molto il testo di origine, uscì con uno dei prodotti meno indovinati della sua intera carriera.
Così, dopo la scottatura presa con il Dune datato 1984 e dopo una prima parte della versione Villeneuve visivamente magniloquente seppur cupa ma narrativamente interlocutoria e a tratti troppo attendista, l'idea di mettere una pietra sopra al tutto non mi sembrò poi così peregrina. Per fortuna decisi di dar una possibilità anche a Part two e devo dire che ne è valsa davvero la pena, Villeneuve sembra scuotersi di dosso ogni timore e, sebbene in alcuni passaggi giochi sul risaputo (niente di male in fondo), ingrana la quarta e con la giusta densità di eventi e contenuti (narrativi e metaforici) dà vita anche lui a un universo che vale la pena di essere vissuto ed esplorato.
Arrakis è uno dei pianeti sotto il controllo dell'Imperatore Shaddam IV (Christopher Walken), un sito fondamentale in quanto Arrakis è l'unico pianeta conosciuto sul quale è presente la spezia, sostanza preziosissima in quanto capace di far muovere le astronavi lungo i loro viaggi interstellari. La spezia è ricchezza e potere, da molti anni ormai Arrakis e l'estrazione del prezioso elemento sono concessi dall'Imperatore alla casata Harkonnen, una stirpe di guerrafondai crudeli e spietati retta dal barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård) e da suo nipote Rabban Harkonnen detto Bestia (Dave Bautista).
Con una decisione all'apparenza inspiegabile la concessione viene revocata dall'Imperatore agli Arkonnen e affidata alla casata in ascesa degli Atreides, capeggiata dall'assennato e decisamente più umano duca Leto Atreides (Oscar Isaac), sposato con Lady Jessica Atreides (Rebecca Ferguson), una discepola del culto femminile delle Bene Gesserit, una sorellanza mistica di "streghe" bene inserite nei mondi politici, religiosi e di potere. Il loro primogenito Paul Atreides (Timothée Chalamet) sembra essere destinato a ricoprire il ruolo del prescelto di un'antica profezia da tempo perseguita dalle Bene Gesserit e presa a religione dai Fremen, il popolo nativo e perseguitato degli abitanti del deserto di Arrakis.
In realtà la decisione dell'Imperatore non è dettata da scopi nobili ma porta in sé il secondo fine di bloccare l'ascesa della casata Atreides mettendogli contro i guerrieri Harkonnen. Nel complicarsi della situazione politica, mentre spirano segnali di guerra, Paul inizia ad avere visioni di una vita tra i Fremen, una vita da guerriero, forse da condottiero, al fianco di una giovane fanciulla indigena, lui ancora non lo sa, di nome Chani (Zendaya).
Villeneuve ha già dimostrato di godere di un feeling particolare con la fantascienza di grande richiamo (di pubblico) almeno in due occasioni, ossia con l'uscita dei bellissimi Arrival prima e Blade Runner 2049 poi; con la saga di Dune il regista alza il tiro e crea aspettative altissime nei fan dell'epopea messa su carta da Herbert, lo fa, almeno nel primo segmento, prendendosi i suoi tempi e cercando di rendere giustizia ad un'opera monstre evitando in maniera accurata di trarne un bigino che per forza di cose avrebbe scontentato i più e sicuramente i fan dei romanzi dello scrittore americano.
Quel che ne esce è una prima parte fatta di passaggi dilatati che affascina dal punto di vista immaginifico e realizzativo ma che suscita qualche perplessità nel suo incedere, quasi come se si percepisse una sorta di timore reverenziale per la materia; Villeneuve però è un ottimo regista, forse con il suo girato ben in mente approccia una seconda parte con piglio nuovo e più deciso, alza i giri del motore e il mondo di Dune si espande e acquista vivacità oltre che a prendere vita.
Le meravigliose trovate sceniche che nella prima parte sembravano soverchiare un po' tutto il resto iniziano ad accompagnare un complessivo di grande valore proprio nel momento in cui, stando a quel che si dice, Villeneuve inizia per alcuni particolari a tradire un poco il testo. Cresce di importanza il personaggio interpretato da Zendaya che nel corso di tutta la seconda parte avrà modo di vivere la maturazione e il cambiamento del suo rapporto con Paul Atreides, il vero protagonista della saga.
Dune è, tra le altre cose, anche la storia di maturazione e cambiamento (predestinato?) di un protagonista incarnato al meglio da uno Chalamet duttile e talentuoso, un personaggio che si porta dietro una tragedia interiore e che sa (perché lo vede) che nel suo futuro ci saranno guerra e morte a carrettate e che i contrasti tra politica e religione, ma soprattutto quelli tra sentimenti e ragioni di Stato, non potranno che portare dolore e sofferenza a lui e a chi a lui sta vicino.
Nell'incedere della narrazione tutto si carica di dramma, le sensazioni sono acuite dalle scelte musicali, ingiustamente criticate, di un Hans Zimmer cupo e oppressivo che giganteggia insieme alle immagini superbe di un mondo e di civiltà ostili.
L'epica di Dune, immagino già dalla pagina scritta, si fonda su tantissimi contrasti, su una pluralità di elementi che convivono e rimandano l'uno all'altro donando spessore a tutto ciò che Herbert ha creato e Villeneuve ha reso magnificamente in immagini: pensiamo alla spietata violenza della razza Harkonnen, proveniente da un mondo dove anche i colori si ritraggono alla loro vista, immersi in scenari asettici e chiusi in enormi macchine di morte, e poi alla simbiosi dei Fremen con la natura, anch'essa dura e ostile, un popolo che ha imparato a viaggiare sfruttando i pericolosissimi vermi giganti della sabbia, a onorare i morti in un rito di comunione collettivo alla cui base sta un'idea geniale (gran trovata quella dell'estrazione dell'acqua, bellissima simbologia), a muoversi in sintonia con il deserto e soprattutto, almeno per parte di loro, a credere all'arrivo di un messia che veicola anche un discorso sulla fede e sulla corruzione delle religioni rappresentata bene dalle Bene Gesserit e dal personaggio interpretato da una bellissima Rebecca Fergusson in gran spolvero.
Cresce con il tempo anche la figura, probabilmente chiave in un film futuro, di Alia (Anya Taylor Joy?), la sorella non ancora nata di Paul e già figura messianica anch'essa. Non sono mancate le letture dei due film in chiave sociale e politica con la visione dello sfruttamento delle risorse da parte del sistema del capitale (Occidente) ai danni delle popolazioni indigene depredate delle loro risorse nella loro terra e costrette alla ribellione (Medio Oriente), in un chiaro parallelo con Impero/Harkonnen da una parte e Fremen dall'altra.
Ovviamente (e viene sempre più da dire giustamente) la parte dei cattivi spetta al capitale. Insomma, tanti spunti, spettacolo garantito, cinema di cassetta fatto per bene con ambizioni e dignità autoriali, una prima parte più faticosa e una seconda che compensa di tutto.
Villeneuve è ormai una conferma che si inscrive nel genere tra le voci più interessanti e ambiziose del cinema contemporaneo (ben più di Cameron a parere di chi scrive).