E’ difficile valutare un’opera che come unico legame ha il titolo, Duets, ma poi spazia nell’arco temporale di circa trent’anni, e da Charles Aznavour e Julio Iglesias a GIMS e Gashi, passando per Eric Clapton e Herbie Hancock, fino ad arrivare a Zucchero, Annie Lennox e Mary J. Blige. E’ vero che tanta varietà può non annoiare e abbracciare diverse generazioni di ascoltatori, ma l’insieme, senza un filo logico, non consente un’analisi “filologica musicale”, mi si perdoni il gioco di parole e in aggiunta, cosa più importante, non è così piacevole all’orecchio, continuamente frastornato dai cambi di produzione e artisti. Insomma il classico tentativo di fare contenti tutti rischia l’effetto contrario quando nello stesso disco si ascoltano Craig David e Chris Botti o Mylène Farmer e Sam Moore. Comunque al netto di queste osservazioni le canzoni belle ci sono, non mancano pure quelle mediocri. Semplicemente alcune funzionano e altre no, e in quest’ultimo caso peccano perché se ci si discosta dagli arrangiamenti originali devono esserci nuova linfa, nuova sostanza, nuove idee, altrimenti danno l’idea di risultare perfette per un album di b-sides e outtakes, non per un progetto contenente, in teoria, una tematica ben precisa e quindi con il bisogno di un livello medio qualitativamente alto.
Comunque, dopo il mezzo flop dell’inutile My Songs, che seguiva il gradevole 44/876 con Shaggy, qui presente con il singolo di quel lavoro, la simpatica "Don’t Make Me Wait", arriva questa raccolta, uscita a Marzo 2021, posticipata per la pandemia rispetto alla data iniziale, che ne prevedeva l’uscita per lo scorso Ottobre.
L’inizio è interessante, con la nuova "Little Something", registrata a distanza durante lo scorso lockdown con Melody Gardot, cantautrice americana di matrice jazz. Da questo gradevole pop ritmato con influenze latine, contraddistinto dalla chitarra del fido Dominic Miller, che figura anche fra i compositori del brano, si fa un salto nel tempo e si approda alla colonna sonora di Arma Letale 3 (1992) con Eric Clapton per "It’s Probably Me". Il canto dolente del “Pungiglione” abbinato alle sei corde acustiche ed elettriche di Slowhand trasforma questo pezzo in un classico senza tempo, abbellito grazie alle pennellate di sassofono di un personaggio da riscoprire, l’instancabile David Sanborn, musicista per cui occorrerebbe un’intera enciclopedia solo per elencare le sue straordinarie partnership.
La macchina delle collaborazioni, però, subito si inceppa, arriva la mediocre resa di "Stolen Car", motivo di spessore da Sacred Love (2003), ora interpretato con Mylène Farmer in una versione insipida, presente in Interstellaires, decimo lavoro in studio (2015) per l’artista francese. Ci si riprende subito grazie al trionfo della contaminazione “world” di "Desert Rose", famoso singolo estratto da Brand New Day, scritto a quattro mani insieme a Cheb Mami, ma si rimane subito senza benzina ascoltando "Rise & Fall", in verità grande hit di quasi vent’anni fa proposta da Craig David, ma onestamente anche grande scempio di una delle più belle melodie ideate dall’accoppiata Miller-Sting, la struggente "Shape Of My Heart".
Le fresche recentissime "Reste" e "Mama" prevedono i talentuosi rapper GIMS e Gashi. La prima traccia è notevole, il mago dell’hip hop congolese ne ha percorsa di strada, mentre la seconda sembra meno adatta per l’ex Police, paradossalmente più a suo agio nel suonare la chitarra solista nella riproposizione di "Fragile", registrata da Julio Iglesias nel 1994.
Rimane stranamente sotto le aspettative "We’ll Be Together" con Annie Lennox, così lontana dalla frizzante composizione pubblicata in …Nothing Like The Sun, uno dei tanti capolavori dell’artista inglese che negli anni ’80 e ’90 ha davvero dato il meglio di sé, ma ha lasciato gioiellini sparsi pure nel nuovo secolo, come ad esempio alcune tracce presenti in 57th & 9th, del 2016. A Novembre, tra l’altro, dovrebbe deliziarci con un album nuovo di pacca dal titolo enigmatico: The Bridge.
Urge poi sottolineare come il buon Gordon Sumner si trovi bene nelle vesti di famigerato crooner e renda godibilissimi i duetti più ricercati, dalla mirabile interpretazione di "L’Amour C’Est Comme Un Jour" accompagnato dall’insostituibile Charles Aznavour, all’emozionante rievocazione dello standard "My Funny Valentine" insieme a uno dei più rivoluzionari pianisti jazz-fusion esistenti al mondo che di nome fa Herbie Hancock. Stesso discorso per il classico "In The Wee Small Hours Of The Morning": la calda voce di Sting e la delicata tromba di Chris Botti rendono giustizia al songbook appartenente a Sinatra.
Trova spazio in scaletta anche "Practical Arrangement", dal progetto forse meno riuscito in assoluto, The Last Ship, datato 2013. L’australiana Jo Lawry è la perfetta partner per questo motivo intriso di nostalgia. Nostalgia che sopraggiunge anche all’ascolto di "September", ma stavolta il termine assume un’accezione negativa: scorrendo i minuti del brano, recentemente concepito, si rimpiange la verve compositiva, smarrita in questo pezzo da parte dell’autore di Roxanne. La canzone comincia ricordando molto "When We Dance", pubblicata nel ’94 come inedito per un “The Best” e con la complicità di Zucchero sfocia in un finale molto simile a "My Way". Mah…
“Sam Moore fa parte della mia vita artistica da quando mi sono catapultato per la prima volta nell’incantesimo della Soul Music. Quando canta, immediatamente ascolto l’intera storia della sua gente, le battaglie, le tribolazioni, i trionfi. C’è tutto nel timbro e nella dignità della sua voce”.
Non vi è migliore introduzione a "None Of Us Are Free", da Overnight Sensational, inciso nel 2006 dal Re del Soul americano, che ci accompagna quasi al termine dell’album – si tratta della penultima composizione – e da sola vale quasi il prezzo del disco. La potenza vocale di Moore si abbina perfettamente alle tonalità di Sting; Michael Ripoll alla chitarra sostiene le percussioni indiavolate di Sheila E., così questo moderno rhythm and blues apre le ali e dispiega un volo nel gospel, alimentato dai cori di Shana Crooks, Tabitha Fair, Adie Grey e Crystal Talifero.
Osservazioni conclusive: rimane l’amaro in bocca per l’inserimento dell’inedita rivisitazione di "Englishman In New York" – ora intitolata "Englishman/African in New York" –, in duetto con Shirazee, solo nell’edizione giapponese e in quella speciale francese. Sono sorprendenti, poi, alcune imprecisioni all’interno del booklet riguardanti i dettagli delle sessioni in studio di registrazione per ciascuna canzone (i cosiddetti “credits”), e infine la mancanza di altri duetti celebri che meriterebbero di comparire altrettanto – qui varrebbe la pena di citare almeno le collaborazioni con Tina Turner, i Muvrini, Gregg Kofi Brown e Sheryl Crow –, ma viviamo un’epoca liquida, ricca di frammentazioni discografiche, a cui, probabilmente, il sottoscritto dovrà arrendersi, smettendo di lamentarsi, prima o poi.